Recensioni / Richordiamo anchora (in scena) Pietro Ghizzardi

A Milano lo spettacolo sul pittore e scrittore autodidatta scoperto da Cesare Zavattini

«Una volta avevo dippinto charolina invernissi il suo vizo lo avevo scholpito e poi lo avevo attachato inchollato chontro al muro del nostro porticho e tutte le mattine chon la schala del fienile andavo sempre a ritochare charolina invernissi e avevo chontinuato piu di un meze sempre tutte le mattine a ritochare charolina invernissio».
Dipingeva ogni giorno, appassionato e perseverante, il pittore-contadino Pietro Ghizzardi (o Ghissardi, come si firmava, trasponendo in lettere la pronuncia dialettale). Tanti i ritratti, soprattutto di donne, segnati da solchi e irregolarità. Poi, quando l’immagine non bastava più, chino su un pozzo, scriveva. Un fiume sgrammaticato ma espressivo di ricordi, spiegazioni della sua arte, personaggi. Proprio come Carolina Invernizio, dipinta e cantata, tra le autrici dei romanzi d’appendice che tanto amava, affidata con gli altri volti e appunti a un vecchio quaderno contabile.
Questa spontanea e quasi inevitabile necessità di esprimersi dell’artista – un autodidatta che trascorse l’intera vita nelle campagne della Bassa Padana, definito dal critico Angelo Guglielmi «analfabeta ma scrittore» (Il piacere della letteratura, 1981) – emerge con chiarezza nello spettacolo Casa Ghizzardi: Mi richordo anchora, fino all’11 dicembre a Milano al Teatro dell’Arte della Triennale. Una pièce che è un tuffo nella biografia e nell’opera dell’artista, interpretata con intensità e delicatezza dall’attore Silvio Castiglioni. E lui infatti che accompagna gli spettatori in un percorso a luci soffuse di circa un’ora: un itinerario essenziale e simbolico tra diverse stanze che evocano l’ambiente in cui Ghizzardi visse, con una prima parte più didascalica in cui si narra l’esistenza del pittore e una seconda emozionale in cui se ne recitano i testi.
Scritto dalla drammaturga Giulia Morelli, nipote dell’artista, con la regia di Giovanni Guerrieri e la scenografia di Nicolò Cecchella, lo spettacolo racconta il pittore dalla nascita nel 1906, figlio di contadini fittavoli, fino alla morte nel 1986, quando il corpo fu trasportato al cimitero su un carro trainato da un cavallo. Fu Ghizzardi a volerlo, come dichiarò nell’autobiografia Mi richordo anchora: il libro che, scaturito da quell’originario quaderno contabile, uscì nel 1976 per Einaudi e vinse l’anno successivo il Premio Viareggio, ripubblicato ora – a quarant’anni dalla prima edizione e a trenta dalla morte dell’artista da Quodlibet.
Cruciale nella vita di Ghizzardi fu Cesare Zavattini. Lo ricorda la nipote Lucia, alla prima dello spettacolo alla quale «la Lettura» ha assistito: «Zavattini tornava spesso a Luzzara, il suo paese natale nel Reggiano, non lontano da Boretto, dove vivevamo noi. Così un giorno lo zio caricò i dipinti sulla bici e andò a cercarlo». Oltre a sostenere Mi richordo anchora – di cui firmò la nota introduttiva, conservata nella nuova edizione – già nel 1968 Zavattini aveva invitato Ghizzardi alla mostra nazionale dei pittori naïf a Luzzara. Fu una tappa decisiva per farlo conoscere, sebbene già dagli anni Settanta la collocazione tra i naïf iniziò a essere messa in discussione.
Oggi, come lascia trasparire anche la pièce, prevale l’idea di un Ghizzardi «primitivo» nei materiali e nei colori ma non ingenuo o selvaggio. La terra, le erbe, il carbone erano i mezzi con cui dipingeva, all’inizio per mancanza di soldi, poi come scelta. Lo sostiene, tra gli altri, Valter Rosa nel suo intervento per il catalogo della mostra a Boretto Mi faceva suo richordo tutto (edito da SpazioArte Prospettiva16). Secondo lo storico dell’arte, il bisogno di esprimersi di Ghizzardi non fu solo uno sfogo o una fuga. Piuttosto, la ricerca di «una via d’uscita dallo sterminio che aveva investito il mondo contadino»: un nucleo non più compatto di saperi tramandati da generazioni, che si sentiva minacciato dal progresso tecnico.
È per questo che «al mio funerale io voglio essere achompagnato da unessere animale un chreato di gezu christo ma non chon una machchina ché é stata chreata da un mecchanicho», lasciò scritto Ghizzardi. La cui autobiografia ci consegna infine un suggestivo appello, fatto rivivere nello spettacolo, in difesa della Luna: perché l’uomo non arrivi anche lì e, soprattutto, non vi trasferisca i «chontadini moderni», che avvelenerebbero pure il cielo, dove riposano «gli spiriti dei nostri poveri morti».