Recensioni / Colla, forbici e matematica

Amava le teorie non euclidee perché fanno pensare l’impensabile. Collezionava citazioni tanto da scrivere un libro senza usare altro. Ma Imre Toth aveva anche una seconda vita: ebreo romeno scampato prima ai nazisti poi alle epurazioni antisemite dei comunisti. Nelle sue conversazioni ora raccolte, il ritratto di un uomo del secolo

Si può fare filosofia con forbici e colla? Si può scrivere un libro importante di citazioni e brani tratti da settecento autori antichi e moderni? La risposta è sì. C’è un uomo che ha fatto tutto questo, e altro ancora. Si chiama Imre Toth ed è nato nel 1921 a Szatmár, in Transilvania, terra contesa da Romania e Ungheria, uomo di frontiera in molti modi e forme. Nel 2010 è scomparso a Parigi, dove risiedeva, dopo una vita avventurosa. Il vero nome era Roth, ed è noto per essere l’autore di un’opera che ha realizzato il sogno di Walter Benjamin: scrivere un testo fatto solo di citazioni. S’intitola No!. Uscito nel 1997, è un "palinsesto di parole e immagini" di cinquecento pagine che rompe con ogni sistematicità e crea un flusso di testi tratti da Husserl, Tristan Tzara, Orwell, Cantor, Gauss, Tommaso d’Aquino e da tanti altri, alcuni inventati dall’autore. Al centro del volume il confronto con lo scandalo intellettuale che l’idea della geometria non euclidea impone al pensiero umano: pensare l’impensabile. Un universo di parole che comprende anche vari collage. Toth ha scoperto dentro le opere di Aristotele frammenti di testi precedenti che fondano una geometria non euclidea, quella che, con una sorta di paradosso, rende possibile la stessa geometria euclidea, e che siamo soliti attribuire all’Ottocento. Un grande filosofo della scienza.
Toth-Roth non è però solo questo. Si tratta di un uomo che ha attraversato la storia dell’Europa orientale in modo unico. Diceva agli amici di essere stato ebreo e comunista in un periodo in cui le due cose non erano proprio salutari. Il lungo cammino da me a me, ampia intervista con Péter Vàrdy, appare ora in italiano; ricostruisce buona parte della sua vita a partire dal microcosmo di Szatmár per allargarsi alla storia del continente. Giovanissimo militante comunista scopre in carcere, dove è stato rinchiuso per la sua attività nella resistenza, la matematica. Legge e studia. Grazie a un evento casuale non è consegnato ai nazisti, e scampa Auschwitz, dove muoiono invece i genitori. Finita la guerra partecipa alla costruzione della nuova Romania, ma è vittima, come molti altri all’epoca, dei processi antisemiti organizzati dal Partito comunista nei confronti dei propri militanti. Una doppia terribile esperienza. Salvato una seconda volta grazie alla sua fama di eroe antinazista, riesce a insegnare all’università di Bucarest, poi a espatriare in Germania, dove diventa, su proposta di Karl Popper, docente, e quindi in America, a Princeton. Come scrive Giancarlo Gaeta nella postfazione all’intervista, Toth è uno di quegli straordinari intellettuali ebrei del Ventesimo secolo alla pari di Simone Weil, Primo Levi, Hannah Arendt. Con la prima condivide «il sentimento di repulsa verso le pratiche religiose ebraiche», salvo prendere atto di una condizione «che non si è scelta e a cui non si è legati»; con Levi la conoscenza razionale non messa in discussione dalla persecuzione razziale; con la Arendt la necessità di distinguere la riflessione sulle vicende storiche dell’ebraismo dal cosiddetto «amore per il popolo ebraico». Tante sono le facce di questo uomo poliedrico, tutto di un pezzo, ironico e inventivo, generoso e paziente, dotato di una profonda umanità. Ha frequentato Napoli, l’Istituto italiano per gli studi filosofici, dove in un intervento, Essere ebreo dopo l’Olocausto (Cadmo), ha spiegato ai suoi ascoltatori come il Terzo Reich, sebbene sconfitto, abbia realizzato il desiderio diffuso in ogni parte della Vecchia Europa di eliminare gli ebrei, e contemporaneamente quale insopportabile prezzo abbia pagato l’illuminismo ebraico alla «integrazione attraverso la cultura», fornendo così un contributo intellettuale fondamentale alla civiltà europea. Leggere le pagine dell’intervista, come quelle dei suoi libri, o di un’altra conversazione con Gaspare Polizzi apparsa sulla rivista «Iride» (settembre-dicembre 2004), significa incontrare un uomo fuori dal comune, un pensatore originale, un narratore incomparabile, e capire come sia possibile fare filosofia con colla e forbici.