Il festival. Ermanno Cavazzoni presenta il suo libro «Gli eremiti del deserto» al Filandone di Martinengo. Raccolte antiche storie, «bellissime e poco conosciute»
Ci vuole un certo coraggio, e capacità di astrazione, per occuparsi, oggi, di antiche storie di eremiti ed anacoreti, vissuti nei deserti di Egitto, Libia, Siria, Palestina, fra il III e IV secolo dopo Cristo.
Ermanno Cavazzoni, figlio e padre nobile, malgrado lui, nella pattuglia (guai a chiamarla scuola) dei «narratori delle pianure» emiliane, ha dedicato il suo ultimo libro a «Gli eremiti del deserto» (Quodlibet, 2016). Anche di questo parlerà al Festival dei narratori italiani «PresenteProssimo», oggi alle 18, a Martinengo, auditorium Il Filandone (via Allegreni, 37). Nell’era dei riti di massa, ove tutto si stima solo in base ai numeri che raccoglie; nella civiltà del rumore, delle gare a chi urla più forte e le spara più grosse, storie di astinenza, rinuncia, raccoglimento, silenzio, contemplazione, solitudine, isolamento, ricerca di tracce del Creatore in minimissime e ossessivamente uguali porzioni del creato: celle, colonne, picchi selvosi, grotte desertiche. Ricerca, contestualmente, di tracce di Dio nell’esplorazione/messa alla prova, all’estremo, delle proprie capacità di resistenza e automortificazione, negli antri e cunicoli oscuri del proprio sé.
«Questi racconti del III e IV secolo – spiega Cavazzoni – sono bellissimi. Testi che hanno circolato per mille anni, tutto il Medioevo e finoltre, in tutto l’Occidente. Oggi non sono più conosciuti, così li ho un po’ raccontati. Brevi vite di questi eremiti che vivevano nel deserto: a volte leggermente buffe per le prove a cui si sottoponevano, per la parte che ci faceva il demonio, le tentazioni, che somigliano a quelle che oggi chiameremmo “allucinazioni”. Non mangiare, stare sempre in piedi, anche per dormire, tenersi addosso per anni fino a quaranta chili di catene, non uscire mai, anche per dieci/quindici anni, da una cella dove non ci si poteva nemmeno sdraiare. Dette così sembrano torture, loro lo facevano con una specie di godimento». La più nota e più ampia di queste vite «è quella di Sant’Antonio. Ma anche quelle di Paolo, o Ilarione di Gaza: ce ne sono decine, forse centinaia, in raccolte più o meno coeve, in latino o in greco. La loro lettura può essere del tutto indipendente dalla fede. Le può leggere un maomettano o un ateo, come noi leggiamo le storie zen, tibetane, cinesi o giapponesi: lontane come cultura, antichissime, ma capaci di attrarci e incantarci. Non ci trovi tanto degli insegnamenti: come quando leggi i romanzi d’avventura, vorresti farla tu l`avventura, più che farti insegnare qualcosa».
Oggi, però, le avventure sono «Pechino Express »... Questi racconti eremitici, pur «distanti dalla nostra sensibilità attuale, muovono anche una certa invidia: che si possa fuggire dalla nostra civiltà così oppressiva, fatta di infinite tasse e divieti. E, soprattutto, oggi quasi non c’è luogo dove si possa scappare, è tutto sotto controllo, tutto appartiene a uno Stato».
Carriera eremitica addio: Google Maps arriva dovunque. «Quest’idea dello scappare, dell’uscire dagli Stati mi è sempre piaciuta. Quando uno non ne può più della gente, della città, di tutto, che fa? Capita a tutti, almeno una o due volte nella vita, se non molto più spesso, di voler mollare tutto. Oggi è impossibile. Ti mettono sotto psicoanalisi». O su «Chi l’ha visto?».
«Allora, “Chi l’ha visto?” non c`era e questi avevano la libertà di sparire. Si dedicavano all’elevazione spirituale, al silenzio, all’astinenza, secondo la loro religione». Non farsi coinvolgere dalle tentazioni, dalle «chiacchiere» del mondo. Oggi i valori sono solo nella collettività, nella massa, nell’approvazione dei molti, nei grandi numeri. «Invece esiste una dimensione solitaria, individuale, molto importante per avere la forza di vivere giorno per giorno».