Recensioni / Orienti occidenti: storia del vuoto

[…] 3. Se invece la bussola la facciamo girare verso ovest, incocciamo in altre sparizioni, libri del tutto diversi, ma come spesso capita, sotto la crosta della differenza si ritrovano simili passioni e simili tormenti. È uscito per Quodlibet/Humboldt, per esempio, un libro singolare, dal titolo Absolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, a firma Giorgio Vasta, per i testi, con le fotografie di Ramak Fazel. Le spoglie sono quelle della guida, del resoconto – d’autore – di viaggio. Infatti le prime pagine si peritano di descrivere, con dovizia di particolari, l’occasione che al viaggio ha dato origine. Come se non si potesse dare, nella letteratura d’oggi, un racconto che non sia completamente ancorato al reale, come se si ritenesse il lettore incapace di orientarsi nella fantasia, anche se poi, è ancora la premessa metodologica a dirlo, l’intenzione è di mantenere chi ha compiuto il viaggio se non sullo sfondo almeno in secondo piano. Le persone si fanno personaggi... di una scrittura che soprattutto suppone, finge, si arrangia, mente. E, come sempre leggendo Vasta, siamo sopraffatti da tanta consapevolezza. L’itinerario prevede una serie di luoghi vuoti, naturalmente o artificialmente tali. Spazi abbandonati, persi di fronte alla natura, spazi morti o moribondi, anfratti strappati alle regole del nulla o in equilibrio precario sulla sparizione. Ma raramente c’è vuoto in queste pagine – e le fotografie, tutte di piccolo formato, faticano a creare le crepe visive necessarie alla percezione di quel vuoto perfetto – l’absolutely nothing – annunciato dalla copertina. La lingua di Vasta è al solito densissima, di una precisione maniacale, occupa tutto lo spazio del pensiero e non concede nulla all’immaginazione. La profondità della riflessione – e della finzione, della supposizione, della menzogna – è abissale, il luogo (e anche il tempo, o meglio la sua assenza) rimane specchio di un vuoto tutto interno. La narrazione – la coazione a narrare, perché buona parte del pensiero di questo libro non avrebbe bisogno di essere narrato, ma forse semplicemente esposto – è permeata di riferimenti a se stessa, al proprio senso, anche attraverso le voci altrui. C’è, ad esempio, un’ossessione nei confronti di tutto ciò che è dato, notizia, spiegazione, rapporto, un metodo che salda il mondo – in apparenza chiaro, in realtà labile – alle parole, che nel descriverlo lo sostengono e lo proteggono. Nel descrivere la risoluzione di un problema alla macchina, si parla della classica drammaturgia di tentativi frustrati tranne l’ultimo che va a buon fine. O ancora: il paesaggio artificiale, dunque quello fabbricato dall’uomo, è un testo che è necessario imparare a leggere. Oppure: mi ritrovo a pensare che da un viaggio desidero soprattutto questo, percezione e inventario, vita sensoriale che diventa linguaggio, un’ininterrotta descrizione di cose senza mai una consapevolezza precisa, senza la minaccia di un significato, senza supporre neppure l’ombra di una metafora. Ancora: è come se negli Stati Uniti ogni luogo fosse coperto da una velatura mitica, da uno strato sottile eppure robustissimo composto da tutte le narrazioni attraverso cui quel luogo è stato messo in scena. Tutti esempi tratti dalle prime pagine. È dunque ovvio che il viaggio – vero, implacabilmente vero – è pretesto per dire la narrazione. Ma l’inabissarsi della scrittura in sé stessa, se consapevolmente deforma quello che ha visto, rende in qualche modo impossibile la menzogna, vittima di una coazione all’esattezza privata, come a condannare il non-esperito alla realtà, alla verità. Se alla fine del libro non potremo dire cosa Vasta ha visto, saremo certi della verità di ciò che non ha visto, come se fosse proprio l’io a bandire la possibilità di racconto. E questo fa sì che, nonostante il titolo, non ci sia assenza in questo testo. La desolazione del luogo viene riempita dalle parole, e dal personaggio parlante, rovesciando la prospettiva in un parimenti inquietante absolutely everything. Narrazioni sprecate, vengono definite a un certo punto, e poi una festa del caos che mette in crisi il linguaggio in quella sua funzione minima e necessaria che è il nominare. O meglio il raccontare, ormai. Che con i nomi e basta, non ci si fa più nulla. Se vivi nel deserto, dopo un po’ avrai bisogno di qualcosa da riempire. E forse, banalmente, sta tutto qui: il senso del viaggio, della fuga, della letteratura. E anche il valore sovversivo del silenzio, della sparizione. Come sempre, come su tutto, c’è arrivato prima Leopardi, con la sua ginestra contenta dei deserti, senza bisogno né di riempirli, né di raccontarli. Ma solo di esserci. A far risaltare i deserti, sono i tentativi di contraddirlo. E la scrittura di Vasta, che si conferma tra le più alte del nostro italiano contemporaneo, capace di virtuosistici movimenti e variazioni, nonché estenuante nella sua completezza, in questo caso non fa altro che contraddire il deserto, riempiendolo di sé. […]

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