Recensioni / Céline, viaggio al termine... degli editori

Raccolte le «Lettere» dello scrittore al «pagliaccio ruffiano» Gallimard, a Denoél e Monnier

Che Céline fosse un uomo detestabile, nonio si scopre certo oggi. E che le sue idee fossero spesso abiette, ne ha fatto l’oggetto di un’esecrazione quasi universale, tanto che spesso la condanna morale impedisce di valutarne l’opera per quello che è: uno dei vertici della prosa romanzesca del Ventesimo secolo.
I molti, irrisolti interrogativi posti dal «caso Céline» si ripropongono ogni volta che un’occasione editoriale induce a riparlare dello scrittore francese. Come avviene per l’uscita delle Lettere agli editori, che la casa editrice Quodlibet propone con l’attenta cura di Martina Cardelli (pagine 250, euro 19). Si tratta di un assemblaggio tratto dallo sterminato epistolario céliniano e finalizzato a metterne in luce i rapporti, a dir poco problematici, col mondo editoriale francese. Ne vien fuori un libro strepitoso, in cui il personaggio Céline rivela altri aspetti della sua personalità e in cui aleggia comunque, anche se si tratta «solo» di lettere, l’alta letteratura.
Si comincia nel 1932, quando Céline è ancora lo sconosciuto dottor Louis Destouches, medico nella banlieue parigina e completamente estraneo all’ambiente letterario. Scrive a Gallimard, sogno di tutti gli esordienti, ma contatta anche altri editori. Non gli manca l’improntitudine, o la consapevolezza, «lucida e allo stesso tempo folle», come nota la Cardelli, se fin dalla seconda lettera può profeticamente affermare che il suo romanzo, Voyage au bout de la nuit, sarà «pane per un intero secolo di letteratura».
Il lettore di Gallimard incaricato di occuparsi del voluminoso dattiloscritto non si rende conto di quanto grande sia l’impazienza dello sconosciuto autore. Per cui quando arriva la risposta, positiva, Céline ha già firmato per Denoël, che per molti anni sarà quindi il suo editore. E comincia così l’interminabile serie di recriminazioni, sospetti, vittimismi, lamentele, insulti sempre più elaborati che lo scrittore rivolgerà per tutta la sua vita all’editore, paragonato auno sfruttatore di operai, o al protettore di prostitute.
È la prima delle tre fasi in cui la curatrice ha suddiviso le sue scelte epistolari, e va dal 1932 al 1942. Céline intanto è diventato famoso, ha pubblicato un secondo romanzo, Morte a credito, che i critici hanno snobbato (ma che è forse ancora più bello del Voyage) e soprattutto ha fatto uscire i famigerati pamphlet antisemiti, che ne faranno un «maledetto», un autore da tenere alla larga (anche se l’antisemitismo era largamente diffuso in Francia, all’epoca, come si vedrà dopo pochi anni).
Ed eccoci alla seconda fase, che va dal 1947 al 1951. Céline, dopo la folle fuga nella Germania semidistrutta dalla guerra, con la moglie Lucette e il gatto Bébert, è arrivato in Danimarca, dove è stato imprigionato per quattordici mesi e poi rimesso in libertà in attesa di essere estradato in Francia, dove deve essere processato per «alto tradimento e intelligenza col nemico», reati che prevedono la pena di morte.
Denoël, intanto, è stato assassinato in circostanze misteriose, e il suo posto preso dalla sua amante, Jean Voler (pseudonimo di Jeanne Loviton), «mignotta rapace», come la definisce Céline, che intanto è arrivato a considerare la sua prima casa editrice «una tana maledetta, infernale, pidocchiosa, ammorbante».
Un giovane ammiratore dello scrittore gli darà l’occasione per cambiare aria, editorialmente parlando. Pierre Monnier, così si chiama il giovane, fa l’illustratore. Ma pur di rendere omaggio al suo mito, e consentirgli di rimanere sulla scena letteraria, si improvviserà editore, pubblicando con scarso successo alcune delle sue opere, e ottenendo la gratitudine – naturalmente di breve durata – di Céline.
Infine la terza fase, che va dal 1951 al 1961, anno della morte. Il 1951 vede il ritorno dello scrittore in Francia, ormai amnistiato, ma più reietto e odiato che mai (un altro scrittore, Roger Vailland, impegnato nella Resistenza, si rammaricherà pubblicamente di non averlo ucciso). L’ultimo decennio è dominato dal rapporto coni Gallimard padre e figlio, e con i pazientissimi consulenti della casa editrice, Jean Paulhan in primo luogo (che però a un certo punto non ce la farà più a essere insultato) e poi Roger Nimier.
Gaston Gallimard è «unvecchio cioccolataio», «faraone dei premi letterari», «dannata cassaforte blaterante», «compare Deficit», «maledetto ruffiano», «papa rosso, frodo gaullista», «gran nababbo», «disastroso salumiere», «bandito», «coglionazzo in capo», «pagliaccio», e a lui, Céline, povero «operaio» che fa la fame, tocca sbattersi «perché quest’inverno le sue troie possano mettersi il visone».
È un parossistico susseguirsi di recriminazioni, richieste di anticipi, sospetti sul numero di copie vendute, fino alla richiesta imperativa di essere pubblicato nella «Pléiade». Richiesta accolta, superando non poche resistenze in casa editrice. Ma l’agognato volume della definitiva consacrazione uscirà solo qualche mese dopo la morte di Céline.

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