Le Esplorazioni sulla via Emilia sono due volumi che, nel 1986, raccontavano con vedute e scritti quell’arteria che va da Rimini a Piacenza e costituirono un vero mutamento nella rappresentazione del paesaggio e delle sue trasformazioni. Luigi Ghirri e Gianni Celati, curatori di un’esperienza che era anzitutto una grande mostra multidisciplinare, avevano consacrato una nuova stagione di studi. L’architettura e l’urbanistica si lasciavano bonariamente guidare da quell’immaginifico lampante realismo postmoderno.
Trent’anni dopo, “Fotografia Europea”, un progetto del Comune di Reggio Emilia, ha messo in mostra la scorsa primavera le fotografie di Luigi Ghirri e più che celebrare un anniversario ne ripropone l’intuizione iniziale, quella di osservare una strada “mantenendo vivo il rapporto tra immagini e scrittura”.
È entro questo contesto che va letto Almanacco 2016 Esplorazioni sulla via Emilia, raccolta di scritti curata da Ermanno Cavazzoni. La cautela del titolo, utile a richiamare una metodica periodicità del fare esplorazioni tra Piacenza e Rimini e a garantire una certa pratica ancestrale del registrare umori e attenzioni, mutamenti e permanenze, non mette tuttavia il lettore al riparo dal desiderio di incontrare nuovi sguardi sul paesaggio, nuove letture, nuove interpretazioni. Nei venti racconti ordinati "dal fiume al mare", ciascuno divaga: la via Emilia è a dire il vero un canovaccio, un espediente narrativo per esercizi di scrittura o per scavare nelle memorie degli autori, fermandosi forse proprio a trent’anni fa.
Quasi ironico epitaffio, il volume annuncia in sordina che la via Emilia non esiste più. Non ci
sono più saracinesche da guardare, pali della luce che abbiano bisogno di descrizioni, benzinai che colonizzino di pneumatici un edificio fascista o macerie da commentare in bicicletta. Un paesaggio consumato sotto lo sguardo socchiuso di chi lo racconta, che si preferisce sopprimere in deliziosi esercizi di scrittura anziché affrontare a occhi aperti, con il rischio di non trovare più niente che rassicuri. Se la strada è un testo, non la si riesce più a scrivere.
Il libro, tuttavia, inaugura anche altre descrizioni, dichiarando i sintomi di un’altra via Emilia, che si sostituisce a quella di Ghirri e Celati. È la strada delle discinte signorine muggenti tristemente affacciate a turno alle finestre di un palazzo, come nel decadente Settecento veneziano, del nigeriano Odai investito da un’automobile all’incirca a Castelfranco, che la cronaca non sa intercettare, della danzatrice cosmopolita Nura, unica bianca tra settanta famiglie straniere in un palazzo scrostato di via Pasteur, della tata ucraina del terzo piano e dell’ottantenne Monzali, esiliato dalla vita di un condominio in tutto per tutto simile al capolavoro di Ballard. La Via Emilia dell’Almanacco 2016 è ancora un confine, non tanto tra il “sopra dalla strada” e il “sotto dalla strada”, ma tra la sicurezza delle memorie stratificate di letterature, scritture e sguardi consolidati e l’incertezza del “viverci da spiantato”, in mezzo a un’edilizia decadente, all’economia in crisi, a una società confusa e in gran parte immigrata.
Pur liminarmente, questa effemeride degli sguardi sulla via Emilia rimette in gioco quello stesso paradigmatico modello di esplorazione inaugurato tre decenni fa, che reclamava l’esigenza di osservare non ciò che è noto ma ciò che cambia, ciò che è fragile, ciò che è discontinuo. Auspicando una comprensione del territorio che vi s’insinui con coraggio, senza temere di lasciar da parte la consolazione che la memoria di paesaggi che non esistono più avrebbe potuto offrire.