Un libro scritto tra il 2006 e il 2007 che nasce da una serie di lezioni e un seminario che il suo autore ha tenuto presso la Columbia University di New York. Finalmente, a quasi dieci anni di distanza, tradotto in italiano e pubblicato in una versione aggiornata e ampliata. È un libro importante perché, al di là dei contenuti, è stato scritto, prima che da un critico, da un progettista, che guarda in modo diverso ad un periodo storico molto preciso, cercando attraverso l’interpretazione di tornare a parlare di architettura come risultato di un pensiero politico.
Posso definire questo libro come politicamente consapevole, perché realizzato attraverso una serie di azioni sul progetto e sulla storia, ma anche attraverso un modo di essere (non dimentichiamo che Aureli insegna in alcune delle scuole, di architettura più prestigiose) e specialmente attraverso il porsi domande continue. Un costante interrogarsi il suo, un fare domande come compiere un rituale, fare domande come forma di esplorazione e non come ricerca di certezze.
Se le cercate, infatti, non trovate risposte in questo libro, ma solo un modo di guardarsi indietro per leggere il presente e immaginare il futuro.
Si badi bene, chi scrive non coltiva alcuna illusione, neppure minima, di risuscitare alcunché di quel periodo. È bene ribadirlo con forza, le esperienze che ho descritto in queste pagine appartengono come si suol dire al loro tempo, al loco contesto storico e politico che oggi è, come ovvio, totalmente diverso.
Il libro prima di tutto è un tentativo di comprendere se sia mai esistito un progetto dell’autonomia in architettura, e per farlo Aureli mette in relazione tra loro tre personaggi che apparentemente rappresentano altrettante posizioni culturali, ma che in uno stesso periodo storico reagiscono ai cambiamenti politici ed economici attraverso un’idea di architettura molto precisa.
Manfredo Tafuri, Aldo Rossi, Archizoom una volta sottratti alle facili interpretazioni figurative, ci svelano dei lati inaspettati.
Ora, dei tre capitoli, quello su Tafuri, forse perché non sono riuscito mai a comprendere a pieno il SUI) pensiero, è il più ermetico. Ogni suo discorso critico mette in profonda crisi quello che precede, il suo pensiero sembra rifiutare ogni posizione, non offre soluzioni, sembra quasi che esista nel suo pensiero una sorta di delusione continua che toglie alla ricerca ogni proiezione progettuale. Una crisi dell’oggetto che impediva alla città di crescere ed essere soggetto di uno sviluppo coerente in chiave politica.
Diverso il discorso su Rossi e Archizoom, i cui progetti presi in esame nascondono, se letti insieme ad Aureli, nuove possibilità interpretative.
La lezione che oggi possiamo trarre dal lavoro di Tafuri, Rossi e Archizoom va al di là dei facili ripescaggi e indica che nella teoria vi è qualcosa di irriducibile alla pratica dell’architettura come professione. Senza nulla togliere a quest`ultima, se questo libro avrà una qualche utilità sarà forse quella di ricordare che al lavoro teorico non serve la pratica e che quest’ultima ha una sua validità in sé. Eppure e proprio nel lavoro teorico che l’architettura come forma di conoscenza, come modo di comprendere le cose, si riappropria del proprio spazio, che è quello di pensare, di criticare o, so possibile, di cambiare lo spazio in cui viviamo e lottiamo.
Lo fa mantenendosi distante dalla pratica, assai diffusa negli ultimi anni, di “creare” nuovi concetti per cercare di spiegare una realtà contemporanea spesso vista come inesorabilmente “mutante” rispetto al passato, e dunque del tutto inconciliabile con questo; ma al tempo stesso lo fa senza cedere alla tentazione – altrettanto diffusa e frequente – di rifugiarsi nella sterile negazione della realtà, o di farsi paladino di una critica programmaticamente “contro” o “anti”.
Anche se molti sostengono il contrario, Aureli, nel suo pensiero critico, non è interessato all’aspetto “formale” dell’architettura in senso estetico figurativo: ciò che vuole mettere in luce è la natura finita, definita, delimitata, della forma. Il problema della forma è dunque quello stesso del limite. Come già cent’anni fa rilevava Georg Simmel: “Il segreto della forma sta nel fatto che essa è confine; essa è la cosa stessa, e nello stesso tempo, il cessare della cosa, il territorio circoscritto in cui l’Essere e il Non-più-essere sono una cosa sola”.
È qui – più e meglio che altrove – che si lascia riconoscere il già ricordato coraggio di Aureli: nell’affermare, oggi, la separatezza (ovvero, ancora una volta, la differenza) come un valore politico, non enti-politico: l’unico – l’ultimo – modo forse, per poter stare insieme davvero.
Aureli riesce a lavorare sul limite che separa due tipi di ricerca, quella del progettista e quella dell’educatore. Costruisce un libro importante, un libro da leggere per capire che una critica operativa può e deve essere fatta a prescindere dal progetto. Un libro come questo, infatti, non è una trascrizione di un pensiero operativo, ma un lavoro sulla storia e nella storia, che supporta il progetto in alcuni aspetti concettuali, utili a definire un campo d’azione.