Recensioni / La rabbia dello spazio

Un viaggio dentro l’America che somiglia a una catabasi: viaggio nel regno dei morti e nella preistoria, negli scarti e nelle viscere del moderno, nel rimosso della civiltà, nel cuore “rugginoso” (come qui sono i paesaggi, le persone) della condizione umana. Absolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani di Giorgio Vasta, con le foto di Ramak Fazel, è uno dei libri più belli della stagione, libro di confine e di sconfinamenti, in cui l’autofiction riversata nel reportage mostra come solo la soggettività – dichiarata – rende appassionante e più “vera” qualsiasi cartografia e descrizione di luoghi.
Prima di partire l’autore sogna un furto: è stato derubato di qualcosa, ma non sa di cosa e né da parte di chi. Il furto onirico accompagna l’intero viaggio, e ci ricorda una mancanza originaria, che lascia un senso di inconsistenza (scopriremo trattava della ex compagna, Lucia, da cui si era separato poco prima). Poi il viaggio, in compagnia di Silva – il committente – e di Ramak (il fotografo, affabulatore cialtrone e immaginoso), si compie lungo un mese attraverso deserti e in città svuotate, case bruciate, macerie, laghi morti con i pesci pietrificati, campi d’ossa, utopie andate amale (quella dell’architetto Soleri), casinò abbandonati, insegne obsolete, “deserti aerei” (quando la pioggia evapora prima di toccare terra e torna su), musei di scarti e oggetti desueti, cimiteri di auto e di aerei, fino a un cartello giallo a forma di rombo: «Absolutelynothing-next22miles». Ci si smarrisce in un labirinto d’ossa e pietre, in un indecifrabile “puzzle del nulla”. Paradossalmente le ghost town e gli spazi marginali diventano oggi l’unica cosa veramente raccontabile, e cioè non ovvia, non predigerita né preconsumata. Come quando nel Cameraman Buster Keaton va allo stadio il giorno sbagliato, a filmare ciò che non accade, la partita che non si gioca. Negli Stati Uniti ogni cosa, ogni oggetto, ogni luogo si ricopre di una velatura mitica – dal denaro di zio Paperone e Gatsby al paesaggio dei western –, come aveva intuito nel 1940 Emilio Cecchi in America amara, anche lui cronista di confini e città morte (ma con un atteggiamento giudicante, qui assente). E anzi quando poi ci accade di ritrovarci lì la velatura non viene meno e la nostra stessa esperienza diretta diventerà marginale. Forse la pagina più straordinaria, in cui si condensali contenuto “etico” della meditazione sulla catastrofe, è quella in cui si ritrovano in una casa incendiata, dove lo spazio rivela la ferocia che la vita quotidiana teneva a bada, «una rabbia dello spazio nei confronti di ogni tentativo di abitarlo».
C’è infatti una ostilità originaria dei luoghi, un carattere “disumano” del mondo, che ci fa provare pena, fino allo struggimento, perfino per chi non abbiamo mai visto, per chi una volta abitò quel luogo (Ramak si mette a leggere un libro lì trovato per caso seduto su una poltrona semidistrutta). Il diario di bordo oltre a informarci sull’esterno si compone di una serie di riflessioni personali su aspetti problematici del presente, spesso in forma dialogica (di veloci scambi tra loro). Una specie di sapienza portatile, un manualetto Zen on the road. Ad esempio la pagina contro i complottisti, contro cioè chi «si considera così intelligente da non potersi accontentare di quello che dice l’autorità», e non accetta che la verità possa contenere delle incoerenze. Solo con qualche passaggio un po’ autocompiaciuto come quello sulla «esitazione attiva».
A volte la scrittura così sorvegliata di Vasta, quasi “parcellizzata” – aderisce a ogni particella dell’esperienza – deflagra in una impennata visionaria, come nella fantasticheria lirica sulla tartaruga che vorrebbe incontrare, per prendersene cura, portarla in Italia e da lei apprendere «il mistero della vita ipogea, il rallentamento del metabolismo, la castità del pensiero»: nel suo sguardo fossile origine e fine coincidono, e il tempo è perduto per sempre. Forse questa misteriosa coincidenza cercava inconsapevolmente Vasta nel suo viaggio. Da un lato partire come svuotato, orfano di tutto (c’è una relazione tra viaggio e povertà: viaggia davvero solo chi non possiede nulla). Dall’altra raccontare l’«esistenza in disarmo», la parte smantellata, divelta, lo scompiglio nelle cose e nelle persone, sfidando il linguaggio, quello delle parole e quello visivo (le istantanee di Ramak, apparentemente casuali e prive di qualsiasi estetismo, rivelano una intenzione segreta, come se fosse un allievo appena deviato di Ghirri). Le parole solo l’unica cosa che ci resta, suggerisce Vasta. Contro la finzione eccitante di un paese dove la realtà si è dissolta nel mito possiamo mobilitare solo un’altra finzione, il sortilegio della scrittura, che fa esistere gli altri – anche gli assenti – e li redime. Una finzione, un artificio certo – ma anche l’unico modo non tanto per ricomporre lo strappo (e anzi “mancanza” e instabilità vanno accettate, ci costituiscono), quanto per addomesticare un poco la ferocia del mondo, per umanizzare l’absolutely nothing del deserto, per difenderci dalle famiglie di antropofagi che come in un film horror ci assaliranno in una nube di polvere.

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