Recensioni / I bei giorni di Aranjuez

L’ombra delle gocce di pioggia sui due corpi. L’impronta di una suola innevata sul pavimento di legno. Un cespuglio fiorito di lillà nella notte durante il ritorno a casa. Un riccio, che aggirava i corpi della coppia. Noi due nella luce dei fanali delle auto e sullo sfondo un concerto di clacson. Fuori dal finestrino del treno le colline verdi andavano su e giù con regolarità, con lo stesso ritmo dei due corpi nello scompartimento. Sulla ghiaia del letto disseccato del fiume le gocce di sangue erano l’unica cosa che scorreva. La corrente ascendente che dal mare saliva verso l’altipiano incontrava il vento discendente dai monti. Il pulviscolo argentato appena sollevato dal fondo del lago palustre si posava lentamente attorno ai due corpi che giacevano laggiù, nell’acqua calda. E intanto, e in seguito ciò che importava, da un pezzo, non era più chissà quale vendetta. Quei corpi si muovevano al di là. Erano di più. Erano diventati tutto. Al di là delle cosiddette zone erogene: al di là di chissà cosa semplicemente al di là. Non più io, non più lui, nient’altro che l’universo dei corpi: punto e universo coincidevano. Una coppia di corpi sdraiati nell’ansa dell’infinito.

Peter Handke, I bei giorni di Aranjuez - Un dialogo estivo, a cura di Alessandra Iadicicco, Quodlibet. Peter Handke è uno scrittore. Un poeta. Un drammaturgo. Un saggista. Uno sceneggiatore. Persino un reporter di viaggio. La collaborazione con Wim Wenders è lunga è proficua, si pensi a Prima del calcio di rigore, Il cielo sopra Berlino e al film che porta il medesimo titolo della pubblicazione di cui si sta per parlare, che riproduce il testo di quest’opera teatrale di rara e rarefatta suggestione, e al tempo stesso di profonda intensità. Se la pellicola, presentata con scarso successo alla scorsa edizione della mostra d’arte cinematografica di Venezia – rassegna in cui trentaquattro anni fa, quando si celebrarono i trionfi di Prénom Carmen di Godard, Via delle capanne negre e Streamers di Robert Altman, Handke fu tra i giurati –, ha dei limiti evidenti, strutturali, narrativi, formali, costitutivi, e si scontra con la sempiterna difficoltà del rendere pienamente il teatro sullo schermo, il testo edito da Quodlibet ha tutta un’altra aura. Mistica e insieme straordinariamente sensuale. L’uomo e la donna parlano dei loro amori, in una partita a scacchi bergmaniana che ha il sapore della frutta talmente matura da essere quasi senescente e che fotografa in maniera ammaliante l’infinitezza dell’istante in cui alla rimembranza di tempi, luoghi e sentimenti si sostituisce la dolceamara consapevolezza della inevitabile mutevolezza e fugacità delle cose.