La vita degli uomini è un più o meno lungo cammino: lo si dice a volte, senza molta convinzione. Imre Tóth, filosofo della matematica, ungherese di Romania, importante figura intellettuale emersa dal tragico mortaio dei cosiddetti Paesi dell’Est, questo percorso lo fa «da me a me», come recita il titolo del libro che raccoglie le lunghe conversazioni con Péter Vardy, condotte dal 1974 fino all’anno della sua morte (2010): Il lungo cammino da me a me (Quodlibet, pagine 288, euro 19,00, con un saggio di Giancarlo Gaeta).
Raccontare le vicissitudini attraversate, l’antisemitismo endemico nella sua terra, la persecuzione nazista, la guerra, il comunismo realizzato, la famiglia, la religione e l’identità del suo ebraismo, dà il senso di una vita intellettuale profondamente convinta che solo nello spirito la natura si risveglia alla coscienza di sé. Imre Tóth è uno scienziato europeo, nel senso che queste due parole presentano nelle conferenze di Husserl sulla crisi delle scienze europee. L’uomo di scienza mette sempre in discussione i propri presupposti e fondamenti e nello stesso tempo cerca di tener fermo il proprio radicamento nel mondo della vita. Ma è proprio questo mondo ad essere stato calpestato e maltrattato nel XX secolo dall’odio razziale, dal nazismo, dal comunismo.
L’interesse scientifico di Imre Tóth è andato alle matematiche non-euclidee e alla loro paradossale convivenza con quelle euclidee. A tal punto di aver rintracciato nel Corpus Aristotelicum frammenti di una visione della matematica che anticipa quella di Riemann, di Jànos Bolyai e di tutti coloro che non si sono accontentati di ciò che gli veniva consegnato da una tradizione troppo sicura di sé. I problemi fondamentali della matematica diventano così gli stessi della filosofia che, però, non vengono come nello scientismo ridotti e cancellati ma, al contrario, rilanciati con più forza e immersi direttamente nel flusso degli eventi storici, attraverso una discussione che non perde mai di vista l’uomo. Questo sovrapporsi di elementi di riflessione apparentemente disparati prende la strada di un libro strano per un matematico, ma coerente con la sua biografia frastagliata. È un collage di frammenti nei quali lo spirito umano discute con sé stesso facendo emergere la pluralità di voci dalle quali è costituito e su cui si fonda. Tutto ciò che sembra mera citazione, richiamo disordinato a questa o a quella figura, a questo o quel detto, viene ricapitolato in interviste e immerso nella biografia del matematico-filosofo e dei suoi amici. Ritornano vivide le immagini di ciò che doveva essere l’ambiente ungherese per i giovani ebrei negli anni antecedenti alla seconda guerra mondiale, le loro drammatiche vicissitudini familiari insieme alla ricchezza degli stimoli culturali che sapevano darsi.
Una condizione e una storia dalle quali Tóth trae considerazioni non ovvie e scontate sulla dimensione quasi permanente dell’antisemitismo nella cultura occidentale. Sentirsi vermi, insetti nocivi, motivo di paura in sé, come nei romanzi di Kafka, questa la dimensione reale nella quale l’antisemitismo occidentale getta gli ebrei. I secoli che conducono fino alla soluzione finale, mancata per poco ma realizzata pienamente quanto a manifestazione radicale di odio e violenza assoluta, coinvolgono la cultura occidentale, tanto che non si può dire che l’antisemitismo sia soltanto un’aberrazione spirituale temporanea frutto dell’isteria di masse manipolate. Al contrario, per Tóth, è la sostanza che riempie lo spazio vitale comune all’Occidente.
Eppure, ed è questa una delle tesi più interessanti del libro, contrastare e combattere la “necessità” della distruzione degli ebrei si può solo partendo dalle idee centrali della cultura europea che concordano con la tradizione ebraica e cristiana: la sacralità della vita umana e l’unità dell’umanità, corrispondente alla credenza nell’unità di Dio e nella sua giustizia.