Antonella Ottai ha analizzato il ruolo della comicità all’interno dei lager nazisti
Nei campi di sterminio i prigionieri scrivevano, componevano musica e facevano anche cabaret: il sorriso era la massima forma di resistenza
«I trasporti (verso i l ager finali) naturalmente c’erano, ma si doveva anche ridere», ha spiegato Jetty Cantor, celebre cabarettista olandese sopravvissuta a quei viaggi verso i lager finali, da quello di transito di Westerbork, e Antonella Ottai annota: «Si tratta, in altre parole, dell’iscrizione del riso nell’ordine degli obblighi e nell’ordine del bisogno; bisogni che, nel momento in cui si soddisfano, bilanciano eventi straordinari come le deportazioni, un dato di fatto che di naturale non ha nulla, introiettato con tutta la sua forza d’urto nella logica della vita quotidiana, nella sua capacità di resistenza».
Ed è da questa capacità che viene il senso del titolo «Ridere rende liberi - Comici nei campi nazisti» (Quodlibet, pp. 234,18 euro) e la ragione tutt’altro che paradossale di questo saggio sul cabaret e la comicità nei lager.
Oggi lo sappiamo bene, nei lager si disegnava, si scriveva, si faceva e componeva musica, ma la comicità nei luoghi della sofferenza ci appare come qualcosa di surreale, e la sua forza è che era proprio così, che la comicità superava la realtà, pur nascendoci all’interno, e il cabaret diveniva probabilmente la massima espressione di resistenza, di rivendicazione delle qualità naturali e razionali dell’uomo, in luoghi in cui si cercava di disumanizzarlo totalmente.
Se questo è un uomo, riuscirà anche a ridere. Quando l’attore Kurt Gerron a Theresientadt recita questi versi di una filastrocca di Leo Strauss ispirata a una giostra e conclude: «Questo è un viaggio molto strano / È un andare senza fine / E se pure il cerchio non ha uscite / l’esperienza è sterminata», il suo senso e i doppi sensi sono molto evidenti ai presenti, ma come scrive lì Frieda Rosenthal, «attraverso il tormento di tempi duri / il loro canto fa risuonare “C’era una volta” / e i cuori dicono / “Ci sarà di nuovo un giorno” / se ne va via il dolore della nostalgia / grazie all’amato cabaret».
Per farci capire il senso di tutto questo, il libro della Ottai traccia un panorama storico artistico teatrale che parte dalla Berlino «laboratorio europeo della modernità» alle soglie degli anni Trenta e ne vive, con l’avvento e l’insediarsi del nazismo, le chiusure, le esclusioni e le necessità paradossali (del potere e delle vittime) in un processo di grandiosa «estetizzazione della politica» proprio dei regimi totalitari che era l’opposto del cabaret con il suo essere a misura d’uomo, conservando un aspetto di normalità pur in tempi drammaticamente eccezionali (e nel saggio si ricorda la programmazione del teatro di Schouwburg, ad Amsterdam, e l’attività della Lega per la cultura degli ebrei tedeschi), così da riuscire poi a sopravvivere anche dove non sembrava ci fosse più nulla da ridere.
E così era già nei campi di transito di Westerbork e di Theresienstadt dove, internati spesso i migliori artisti ebrei del momento, si creavano stagioni quasi normali pur nello stretto contatto con la morte di massa e le deportazioni.
Elly Hillesum, che si rifiuta di assistere a quegli spettacoli, confessa però di ridere fra sé e sé girando per il campo «davanti alle situazioni più grottesche»: la risata istintiva che sorprende l’esistenza a contrasto con quella suscitata da un intervento razionale che interagisce con le situazioni: «L’assurdità non è la sorgente del comico, ma un efficace mezzo per rivelarcelo», annota la Ottai citando Bergson.
Forse a Buchenwald e Dachau l’assurdità era già evidente di per sé, eppure il cabaret resiste, con prese in giro del personale del campo e monologhi umoristici politici, ma questa volta essenzialmente clandestino, con rischio di morte per chi lo fa e chi vi assiste, o come ottica personale: «I campi sono di ispirazione ubuesca (Jarry). Buchenwald vive sotto il segno di un debordante umorismo, di una buffoneria tragica», scrive in «L’universo contraccezionario» il sopravvissuto David Rousset.
È il trionfo del comico kafkiano, del comico per assurdo, che non a caso era una delle connotazioni della cultura novecentesca. «Proprio quando “una ragione per ridere non c’era affatto”», sono le ultime righe del saggio di Antonella Ottai, «la risata dispiega tutto il suo potere e squassa le pareti del mondo, mostrando a tutti che non erano altro che quinte».