Recensioni / Scrittori VS Editori

Finché morte, o virgola, non vi separi!

Se – come diceva Massimo Troisi – un uomo e una donna sono le persone meno adatte a sposarsi, scrittore ed editore sono i soggetti meno indicati per lavorare su un libro. Di rapporti burrascosi in tal senso è piena la storia letteraria. Tra i più gustosi in assoluto ci sono i dissidi tra Louis-Ferdinand Céline e i suoi editori, come si evince dalla recenti lettere pubblicate in Italia da Quodlibet, con l’ottima curatela di Martina Cardelli.

Céline è tristemente noto per molte vicende, ma dalla sua ha l’indiscusso merito di aver fatto guadagnare alla letteratura cent’anni con un solo libro. Nel 1932 esce il Viaggio al termine della notte, che trasporta il romanzo dall’Ottocento agli anni Duemila in un solo colpo. E che colpo! Un romanzo mondo in cui il mondo viene fatto letteralmente a pezzi.
Già la lettera che accompagna il manoscritto del Viaggio al potenziale editore è una dichiarazione di guerra, e di vittoria preventiva: “è una sinfonia letteraria […], pane per un intero secolo di letteratura. Il premio Goncourt 1932 su un piatto d’argento per il Fortunato editore che saprà accogliere quest’opera senza pari, momento capitale della natura umana.”
L’allora anonimo Céline, che di professione faceva il medico, indovinò tutte le diagnosi tranne una. Il libro fu davvero pane per un secolo, divorato da lettori e scrittori; e sì, segnò un momento di svolta capitale nella storia della letteratura; ma non vinse il Goncourt. Lo vinse un romanzo di cui nessuno ricorda più né il titolo né l’autore, e qui non faremo un’eccezione nel rammentarlo.

L’editore Denoël si accaparrò il libro per il semplice fatto che rispose prima del ben più celebre Gallimard: da un lato fu fortunato, perché l’opera vendette decine di migliaia di copie e divenne una sorta di monumento nazionale; ma dall’altro sventurato, perché si beccò anni di missive infuocate, in cui Céline passava continuamente dalle recriminazioni alle rivendicazioni, condite da una serie di irresistibili improperi e sfottò.

Il direttore editoriale di Gallimard, resosi conto di ciò che aveva perso, per recuperare chiese a Céline un articolo per la Noveulle Revue Francaise, ma l’ex medico rifiutò, togliendosi lo sfizio di rigirare il coltello nella piaga: “scrivo molto lentamente e solo in ambienti vastissimi e nel corso di anni. Queste ed altre infermità mi condannano ai monumenti che lei sa”. Solo molti anni dopo si poté consumare un matrimonio riparatore tra la bianca collana Pléiade di Gallimard e il “nero” Celine.

Se non altro per la mole imponente del carteggio trentennale, risulta chiaro quanto in realtà il contributo dell’editore sia fondamentale per il risultato finale del lavoro dello scrittore. Céline era il primo a saperlo. Non a caso si preoccupava di tutto, non solo della cura redazionale del suo testo (“ho saputo del sabotaggio di virgole e sono allibito, indignato, furente […] Che vadano a stampare libri di cucina!”, dell’editing (“non aggiunga una sola sillaba senza avvertirmi!”); ma anche e soprattutto di quegli elementi accessori che spesso fanno la fortuna di un libro, in primis la copertina (“austera e discreta, con lettere uguali e un po’ spesse”), dei caratteri (“…ma il Céline rosso è un po’ grande, torvo, un filo troppo grande – vedrà – Un minimo di gusto porca puttana! Di distinzione! Tornateci un po’ su… Sobri, sobri, sobri – Le stravaganze a casa, sotto le coperte –), senza dimenticare la carta, l’eventuale prefazione, le illustrazioni, le questioni tecniche della stampa, le tirature.

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