Recensioni / Lettere agli editori

Irascibile, collerico, arrabbiato, presuntuoso, invidioso, affamato, faccia di bronzo. Dotato di una penna alcolica e un’incapacità assoluta verso la più semplice forma di mediazione. Per lui era solo una forma, l’unica che lui sapesse in qualche modo maneggiare, di sopravvivenza in un mondo di lupi. Quello editoriale.

Louis Ferdinand Céline, lo scrittore che per Claude Lévi-Strauss era «la mia inesauribile felicità di lettore», torna con più di duecento lettere inviate ai suoi editori nell’arco di trent’anni, dal 1931 al 1961 grazie a una certosina raccolta di missive che Quodlibet ha appena mandato in stampa, corredate da un’ottima e appassionata introduzione della curatrice Martina Cardelli e un apparato di note di primo livello.

In Lettere agli editori, l’autore del fondamentale (per l’umanità intera) Viaggio al termine della notte incomincia una sua guerra senza elmetto e a mani nude contro l’intero sistema editoriale francese, a cominciare dalla lettera di presentazione del manoscritto che lo scaraventerà nell’Olimpo del mondo (“È pane per un intero secolo di letteratura”, scrive lui nel foglio di accompagnamento del capolavoro).

Sono pagine di una prosa che traduce uno stato d’animo feroce, senza briglia, che accelera senza rispetto dei limiti di velocità quando c’è da insultare, pretendere, ammonire, minacciare. Tre i destinatari d’eccezione: Robert Donoël, colui che per primo pubblicò il Viaggio, e che fu misteriosamente assassinato nel 1945, Pierre Monnier, del tutto prono alla grandezza dello scrittore da sostenerlo nei difficili anni dell’esilio, e Gaston Gallimard, una delle figure più celebri dell’intera storia editoriale europea.

Se nei suoi romanzi si deve necessariamente dimenticare dell’uomo che riempì quei fogli, in questo epistolario l’uomo copre completamente la scena. Colpiscono la virulenza che Céline dimostra nel difendere ogni virgola di un suo scritto, la pervicacia con cui rincorre il danaro che ritiene di meritare (“Sono stufo di non guadagnare mai nulla e perdere sempre”), la presunzione (o semplice dato di fatto) dell’altezza della sua scrittura, l’opportunismo inserito qua e là come spezia a tempo debito quando c’è da smussare gli angoli di una precedente missiva, il sarcasmo dentro cui si rifugia quasi a voler frenare la mano per evitare di dire altro.

La narrazione di Céline è puro alcol, sangue mischiato al fango. Inventore di una forma espressiva nuova che, pur non proseguendo la strada di Joyce, crea una musica dissonante ma allo stesso tempo viva di profondi impulsi lirici (Beethoven? Mahler? Šostakovic?). Uno stile che sfregia la riga della composizione per raccontare l’orrore di cui è capace l’uomo singolo e organizzato in simili e dar forma a libri che Vittorio Magrelli definisce di “torturante bellezza”. Come queste lettere. Tutte all’attacco. Ma solo (o soprattutto) perché si è ben consci che l’unico ruolo che gli è lasciato è quello al centro della sua stessa difesa.

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