Louis-Ferdinand
Céline. Le invettive agli editori e il sogno di vivere nel nostro Paese
«Qui sta il punto! Preferisco organizzarmi in Svizzera, è cosa facile, dove non mi pagheranno in participi infiniti e aria fresca». Siamo alla fine del 1949 quando Louis-Ferdinand Céline invia a Jean Paulhan, l’amico ex partigiano difensore degli scrittori accusati di collaborazionismo e direttore della Nouvelle Revue Francaise, questa minaccia di rappresaglia elvetica. «Sono 6 anni che vivo di preterizioni e aria fresca! Qui servono bigliettoni», scrive. È un Céline furioso, lamentoso, scontroso. Ce l’ha con chi dovrebbe pubblicare e retribuire ma non è opulento o sta in bolletta, con chi gioca a fare il mecenate, con un contratto rescisso. «Vede, sarei libero se venissi pagato in franchi svizzeri e in Svizzera», annota rabbioso nella missiva. Il tono è quello intenso, esagerato, tonitruante, pirotecnico, eccessivo che caratterizza un po’ tutte le 219 Lettere agli editori raccolte in volume a cura di Martina Cardelli (edizioni Quodlibet). L’epistolario copre un arco temporale che va dal 1932, quando uscì il capolavoro Viaggio al termine della notte, al 1961, anno della scomparsa dell’autore.
Risulta assennatamente diviso in tre parti: quella che comprende la pubblicazione dei due grandi romanzi (il secondo è Morte a credito), l’inizio della notorietà e i famigerati pamphlet; il periodo dell’esilio, dal 1944 al ’51, con le pubblicazioni semiclandestine; infine
il tempo del ritorno a Parigi. Sono tre anche le figure notevoli di pubblicatori che vi compaiono: l’intrepido Robert Denoël, l’esordiente Pierre Monnier, l’illustre Gaston Gallimard. I riferimenti alla Confederazione, espliciti e sottotraccia, non mancano. Dato che già i120 novembre 1948 Paulhan si era offerto di aiutare Céline mettendolo in contatto con alcuni editori svizzeri e che a gennaio’49 uscì in mille esemplari, pubblicato proprio in Svizzera da Charles de Jonquières, il balletto mitologico Fulmini e saette. Nell’estate del 1924, terminati da poco gli studi di medicina a Parigi, il trentenne Louis Ferdinand Auguste Destouches approdava del resto a Ginevra, assunto per la sezione igiene alla Società delle Nazioni. Nella stessa città, due anni e molti viaggi dopo, conoscerà Elizabeth Craig, che sarà la sua donna per oltre un lustro. Le lettere restituiscono il consueto Céline geniale e discusso: pignolo fino alla pedanteria, strenuo difensore dei suoi punti e delle sue virgole, interessato alla sobrietà e all’austerità delle copertine, estroverso, giocoso, sarcastico perfino nell’offesa, frenetico, intimo, amichevole, fiducioso ma anche paranoico, vittimista, incupito, incattivito, diffidente. I cultori della sua opera ne ritroveranno i tratti stilistici, i furori, le forzature linguistiche; gli appassionati le stravaganze, le facezie, le manie; i lettori casuali una miriade di insulti creativi e amenità. Approdi inevitabili per uno che vede l’editore come un parassita, un ruffiano, un salumiere, un ozioso scansafatiche, un padrone che sfrutta il suo lavoro di operaio e un’intera casa editrice come una «assurda combriccola di somari presuntuosi», una «bagnarola governata da cretini», un «sabba di falliti», un «coacervo di microcefali». Nel testo compaiono invettive anche più feroci e disinibite ma, osserva Martina Cardelli nell’Introduzione, «giocano su due piani, da una parte insultano e dall’altra disarmano con l’umorismo, cercando di non oltrepassare quel limite in cui la provocazione diventa irricevibile. Sono sorrette da una comicità buffonesca e quasi mai dalla trivialità; sono sempre formulate con una certa levità, con interiezioni ed improperi leggermente antiquati, o stravaganti, talvolta inventati, o storpiando nomi e cognomi. L’insolenza, il livore, sono attenuati da quella complicità che lo humour stabilisce inevitabilmente tra due interlocutori, e la minaccia si fa derisoria, sgonfiandosi di ogni aggressività». Così davvero queste lettere, a vari destinatari del panorama librario, «ci permettono di ricostruire un aspetto della vita di Céline non meno complesso e controverso degli altri, ma soprattutto rendono conto del suo particolare rapporto con la figura stessa dell’editore, che se da una parte riflette la classica dialettica scrittore-editore (sottesa di rancori, sospetti, recriminazioni trattenute) dall’altra la supera e l’esaspera, facendosi iperbolica, maniacale, dominata da ossessioni ricorrenti».