Un libro inattuale ma non troppo. Un libro sulla necessità della teoria. Un bersaglio apparente – il capitalismo – e un tema d’attacco – il rapporto politica e architettura - annunciato e svolto con originalità ma che cela ben altro. Un libro su un certo Tafuri che vuole puntare a una difficile e torsiva sintesi tra Aldo Rossi, Archizoom e infine… Dogma. Un programma di lavoro, un manifesto programmatico, che si apre con una disanima dei presupposti ideologici del movimento operaista tra storia, sinistra e intellettuali attraverso il tratteggiare, attento anche se di seconda mano, di due figure centrali del riformismo e dell’operaismo italiano: Panzieri e Tronti. Una riflessione che, dalla “autonomia del politico”, attraverso lo snodo legittimante di Tafuri (quello della stagione ideologica e non quello di Teorie e storia del 1968), tende a statuire un inedito legame, avvincente ma forse eccessivamente forzato, tra Rossi e i gruppi radical, da Archizoom (Branzi e No-Stop-City innanzitutto) a Superstudio passando per Hilberseimer, per finire con un “Dopo” denso di sviluppi. Il testo scritto tra il 2006 e il 2007 e pubblicato nel 2008 deriva dal seminario Forì(u)m Project promosso da Aureli con Joan Ockman alla Columbia University di New York e oggi meritoriamente pubblicato in italiano da Quodlibet. Un seminario sull’operismo “spiegato agli americani” che aveva in realtà come centro e obiettivo un nuovo (?) possibile progetto dell’autonomia per l’architettura in senso anti-capitalista, pur accettando di quel sistema un’internità ineliminabile. Il testo, con un nutrito apparato iconografico argutamente commentato (una sorta di doppio testo sinottico), si apre con il capitolo “Autonomia e storia”, che si ritiene di poter utilizzare (con l’ultimo) come sinodiche sufficienti alla compressione dell’intero saggio, in cui si dichiara, sin da subito, la tesi di fondo ma anche l’articolazione logica di tutto il testo. In quella densa premessa l’autore, nel voler prender congedo dalla stagione post-moderna, aderisce alla lucida lettura critica di Cornelius Castoriadis del “progetto dell’autonomia” mediante il conflitto, ogni volta rinnovato, tra soggetto collettivo e potere. Per il filosofo greco-francese, infatti, il pensiero occidentale può essere descritto come una sviluppo/inviluppo (dall’età dei lumi al tramonto dei totalitarismi politici) a partire dalla pratica dell’autonomia come dimensione originaria della politica secondo due linee antitetiche di pensiero: l’autonomia del soggetto e l’illimitata espansione del pensiero razionale (Adorno e Horkheimer tralasciando però le tesi di Habermas). Quest’ultima tendenza, all’insegna di una razionalità sempre più strumentale e ridotta alla “comprensione” (Verstand), diviene il vessillo dell’impeto inclusivo ed espansivo del capitalismo, nell’ambito di una progressiva modificazione e incessante rivoluzione dei modi di produzione e delle sue logiche: logiche, al tempo stesso, inclusive e identitarie in cui la ragione stessa diviene, in senso libertario ma anche calcolante, patrimonio sia della autonomia politica che del dominio capitalistico. Al venire meno della critica degli anni Settanta si giungerà, in piena condizione postmoderna, da un lato alla versione ermeneutica e dall’altro alla decostruzione, accumunate da un rinnovato interesse al linguaggio e all’indagine testuale all’insegna o del gadameriano “l’unico essere che può essere pensato è il linguaggio” o del derridariano “nulla esiste al di fuori del testo”. In tal senso, la citazione di Castoriadis riportata a p. 19 è eloquente anche delle tesi di Aureli: «Quello che resta ormai è una collezione di mezze verità utilizzate come stratagemmi di evasione. Il valore della teoria oggi è solo quello di rispecchiare le tendenze del momento. L’esercizio teorico seve solo a razionalizzare ciò che esiste già, ammantando quest’ultimo di apologie del banale e del conformismo. Complicità unita a discussioni sul pluralismo, rispetto per la differenza, per l’“altro”, non fanno altro che glorificare un eclettismo concettuale, coprendo sterilità e banalità ed elargendo un assenso generalizzato all’idea che anything goes». La disanima delle posizioni di Hard e Negri espresse in Impero è indicata come la rinascita di un pensiero critico (antagonista) che non si contenta del “tutto va bene” ma oppone al capitalismo globalizzato il nuovo soggetto politico costituente della “moltitudine” da far risalire al concetto di popolo in Hobbes. Poco dopo questo passaggio sulla moltitudine è finalmente annunciato da Aureli il primo legame con l’architettura nel rilevare come lo scenario di questo rinnovato conflitto globale non sia più la fabbrica ma appunto la città in tutta la sua estensione (metropoli, postmetropoli etc…). Dopo un sintetico abbozzo della storia dell’operaismo italiano – da Autonomia operaia, al così detto operaismo classico sino al post-operaismo – si giunge al concetto dell’autonomia del politico di Tronti da intendersi come tradizione di pensiero che ha inteso il potere politico come sfera autonoma “dentro e contro” l’economia politica borghese. In linea con questa rivalutazione dell’operaismo classico si muove poi tutto il testo ove nelle parole dell’autore dopo aver tratteggiato le tesi di Rainero Panzieri, Mario Tronti e Massimo Cacciari [3 figure], riconsidererò il modo in cui il progetto di autonomia ha preso forma nel dibattito sull’architettura e sulla città negli anni Settanta attraverso il lavoro teorico di Manfredo Tafuri, Aldo Rossi e Archizoom. Per quanto radicalmente differenti, le posizioni di queste tre figure [ancora 3] centrali dell’architettura italiana degli ultimi cinquant’anni hanno condiviso alcuni punti essenziali spesso dimenticati nelle trattazioni storiche [anzitutto] la professionalizzazione dell’architettura […] il suo ruolo culturalmente passivo. Tali protagonisti dell’autonomia architettonica pur in modi assai diversi e arrivando a conclusioni opposte, appaiono ad Aureli accumunati dall’antagonismo (implicito o esplicito) sia dell’orizzonte riformista del Welfar State sia delle tecnocrazie della città-territorio. Se il legame tra Tafuri e Archizoom e l’operaismo è attestato, quello di Rossi sembra più problematico e più circoscrivibile alla polemica con l’urbanistica neo-modernista nelle tesi sulla città per parti e ne L’Architettura della città (e nella III mozione al Seminario Olivettiano di Arezzo) piuttosto che nella rivendicazione dell’autonomia disciplinare della Tendenza affermata nella XV Triennale del 1973. Un’accezione dell’autonomia, quella rossiana, opposta a sociologismi eteronomi che, secondo Aureli, rappresenterebbe un concetto ormai divenuto logoro e sterile luogo comune. Per l’autore le posizioni sia di Tafuri sia di Rossi come dei Radicals che in quegli anni ebbero un’enorme fortuna critica (in Europa e in America grazie a Eisenman e “Opposition”), sono private delle motivazioni ideologiche, a suo giudizio centrali, che le avevano ispirate. Dominanti in questo senso sono le tesi tafuriane contenute in Progetto e Utopia del 1973 – vero sottotesto del libro – in cui, pur attaccando (come fece Scolari in Architettura Razionale sempre del 1973), le proposte di Archizoom e Superstudio, di fatto ne aveva gettato le basi a partire dal saggio Per una critica dell’ideologia architettonica del 1969 apparso su “Contropiano”, come pure da presuppore a quelle elaborazioni visionarie sarebbe stato il concetto rossiano, ricavato da Boullèe, di “razionalismo esaltato”. Se questo primo capitolo contiene in nuce molti dei temi poi estensivamente sviluppati nel testo, resta però dal sottolineare come il libro sia un modo da parte dell’autore di regolare i conti e quindi anche di superare una stagione centrale dell’architettura italiana. Un superamento all’insegna dell’istanza da “La ricerca dell’assoluto” come la definisce Biraghi nella recente Storia dell’architettura italiana 1985-2015 in cui, continuando il racconto tafuriano, questa linea si distingue però sia dal neo-razionalismo reloaded di chi scrive e di altri, sia da altri movimenti para-avanguardisti, sia dai Radicals revivals a la Branzi. Una ab-solutezza (senza legami sintattici) in cui l’autonomia dell’architettura è intesa più che come una forma-linguaggio liberata da ogni significazione esterna vieppiù come un’idea di libertà dall’immagine, dallo stile, dagli obblighi dell’invenzione di nuove forme per approdare, in definitiva, a una architettura non figurativa. Una tensione all’assoluto che si regola con leggi proprie (da αὐτόνομος, “si dà la legge da sé”) in cui, con tutte le contraddizioni spesso non sciolte, rieccheggia ancora il monito di Progetto e utopia per cui «Il dramma dell'architettura oggi è quello di vedersi obbligata a tornare pura architettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori, sublime inutilità. Ma ai mistificati tentativi di rivestire con panni ideologici l'architettura, preferiremo sempre la sincerità di chi ha il coraggio di parlare di quella silenziosa e inattuale purezza». Infine, appare molto apprezzabile il fatto che un “giovane” (classe 1973), ma già influente architetto e teorico come Aureli, si preoccupi non tanto e non solo di misurarsi con la sua eredità culturale ma anche e soprattutto di rilanciare la riflessione sull’autonomia (politica o non politica, disciplinare o eterodisciplinare che sia) con l’obiettivo dichiarato di riaffermare l’irriducibilità – come già in Rossi – dell’architettura alla prassi professionistica, riabilitando, invece, la centralità della sua dimensione teoretica. Poiché è proprio nel lavoro teorico che l’architettura come forma [autonoma] di conoscenza, come modo di comprendere le cose, si riappropria del proprio spazio, che è quello di pensare, di criticare e, se possibile, di cambiare lo spazio in cui viviamo. Come a dire: è proprio con la teoria che si realizza la vera e necessaria autonomia dell’arte del costruire e in questo anche la sua ineliminabile e autentica essenza politica.