Recensioni / Il virus dell'abbandono

Avanzano fra i “dust devils” i corpi deambulanti e famelici della famiglia antropofaga. E nella pancia della combriccola mutante si passa da “consumatori a consumati”, da predatori a prede, perché “solo la preda conosce”. Ma soprattutto, solo la preda si libera dalla catena consumistica grazie a una “stirpe fiera e schiva di operai del cannibalismo”.
Absolutely nothing è un corpo-testo costituito da parole (di Giorgio Vasta), un’appendice iconografica (fotografie di Ramak Fazel) e fotografie in bianco/nero all’interno del testo (di Giovanna Silva, editrice di Humboldt). Racconta del viaggio compiuto dai tre esploratori Vasta-Fazel-Silva nei luoghi d’America disabitati dall’elemento antropico (“cercare la lacuna, esplorare i vuoti, sarà la nostra regola”), nell’ottobre del 2013. Il tempo del racconto e quello della storia si danno battaglia: la cronologia è frantumata, si procede a singhiozzi, in uno zigzag, consapevoli che il bene sta “nel gomitolo, nel solenoide, nel viperino...”.

Difatti questo araldo enigmatico del disagio e dello “spaesamento” recupera di continuo energia dal suo dissolversi, come una dinamo espressiva. “Ogni viaggio (...) crea il suo punto di sparizione: desidera, raggiunto un culmine, dissolversi”. E riavvolgendosi, inevitabilmente, sfugge all’occhio di chi deve giudicarlo, non si lascia agguantare, pattuglia le soglie come uno State Trooper: “Il disabitato (...) è un punto limite. Ciò oltre cui la percezione non può spingersi; perché oltre (...) c’è l’indicibile”. E ancora: Absolutely nothing, prim’ancora del titolo, è un cartello stradale scorto in un`illustrazione, il quale “significa che a volte la lingua dice basta”; il paesaggio della Louisiana è solo frequentazione della sfiducia: “Qui l’umano (...) può infine cedere”; il racconto, che dovrebbe unire dei “ponti”, si sfalda; durante la spedizione, molti sono i narratori incrociati: Joe, Bill, Jeremy, i quali tuttavia non trasmettono alcun senso di fiducia, ma anzi, innescano accese discussioni tra Ramak e Silva sulle categorie di “vero” e “falso”. E altrove ci si domanda se “il destino del linguaggio – lo strumento che ci siamo inventati per dialogare con ogni deserto – fosse infine quello di patire, esausto e frantumato in schegge, l’umiliazione della gravità”.
Il deserto è una tavola metafisica spazzata da un vento dei millenni, sulla quale i desideri s’incidono e si esaudiscono. Nel Mojave, nel cimitero di aeroplani di Paula Madrid, nelle ghost town o in quelle in via di estinzione come Bombay Beach, un tempo meta turistica e ora cetaceo soccombente sulle rive del Salton Sea, a sua volta mare fossile, la parola è profetica, perché “nel deserto i desideri vengono esauditi”, come vaticina l’allucinazione di Spike (il fratello di Snoopy), che appare al narratore.
È evidente l’attitudine modernista del libro, tra nostalgia edenica (parola e cosa in comunione) e mito cosmogonico (nel nulla fiorisce l’invenzione). Tuttavia il segno che balugina come un fugace brillamento del tungsteno, è inverso: nei luoghi prossimi alla scomparsa la vocazione della civiltà (il mondo del linguaggio) è la propria polverizzazione. Le cose si strappano alla loro destinazione d’uso per invocare il proprio destino di abrasione e rivolta. Il deserto stesso contagia d’abbandono chi lo percorre. E un virus dell’assenza quello che avvicina l’absolutely nothing all’absolutely nobody. Il narratore lo dice chiaramente: “Passano i giorni e divento sabbia, cenere (...).Tra poco non ci sarò più”. Se il soggetto perde isotopi di presenza, è perché l’immagine riflessa nello specchio, quella persona che ha sempre garantito un certificato d’esistenza, adesso è venuta meno: “Se non mi vedo più nello specchio, è perché lì, nel riflesso, lei non c’è”.
Il lutto personale si rovescia così nel politico. La dimensione di abbandono che patisce il narratore è la stessa che vive l’America post-Katrina, post-Crisi: terra che impartisce lezioni di tenebra, che ha partorito innumerevoli illusioni ottiche e ora, vittima dello stesso dispositivo generatore, le ha accompagnate allo scasso: il Neon Museum, deposito d’insegne pubblicitarie dismesse, e adesso attrazione da baraccone per turisti tiepidi, parla di un legame tra parole e immagini che si è rotto. Il conflitto non è solo fra parola e cosa, ma fra parola, cosa e sua parvenza. Infatti l’armamentario figurativo che accompagna il testo è una sorta di catalogo di spettri; istantanee di una realtà che, come nell’intermittenza di un guasto, scompare. E per trattenerla, la si raffigura o la si racconta. L’erosione appare così suprema, ma non definitiva. C’è un senso di divenire, di decadenza chimico-fisica, in Absolutely nothing, di finale lento, ma comunque palpitante, per quel che gli rimane. Cosa ci sia nel post di questa immaginazione “a forma di catastrofe” forse soltanto i passi sonnambolici della famiglia cannibale lo sanno.

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