L’arte musicale obbedisce a una gerarchia: sopra i creatori, più in basso gli esecutori. Leo Longanesi diceva, degli esecutori, che sono «come Gondrand», la ditta di traslochi dai furgoni gialli: si limitano a portare la musica da una parte all’altra. Immeritato, dunque, il loro culto. Eppure il terribile Leo visse fino al settembre del 1957, quando il mito di Maria Callas era al suo apogeo; non sappiamo se frequentasse i teatri d`opera, ma, ascoltandola e vedendola, forse, avrebbe fatto un’eccezione.
Nello stesso mese di settembre, vent’anni dopo, Maria Callas morì nel suo ombroso ritiro parigino, ed è in vista del luttuoso quarantennale che l’editore Quodlibet ha pubblicato un corposo volume che, per gli appassionati, è imperdibile: Mille e una Callas. Voci e studi, a cura di Luca Aversano e Jacopo Pellegrini (pp. 640, euro 26). Si tratta di una vera enciclopedia callasiana: ricordi, analisi della sua arte scenica e vocale, stralci delle critiche, valutazioni della cospicua discografia (una delle più ingenti e preziose, per un musicista “soltanto” esecutore). Tanta dovizia di materiali, tanto scrupolo e passione, non si spiegherebbero se non riconoscendo che, per Maria Callas, la categoria di esecutore trapassò in quella di creatore. Nessun altro cantante, o strumentista, ha lasciato nei suoi ascoltatori – chi ebbe la fortuna di sentirla dal vivo, e chi può fruirne solo da incisioni – la sensazione che, come dice il compositore Hans Wemer Henze nella sua testimonianza, «scriveva le note mentre le cantava».
Ecco perché, come osserva il latinista e musicologo Franco Serpa, alcuni ruoli, come la Medea di Cherubini, personaggio che la Callas amò più di ogni altro, nacquero e morirono con lei. Perché, senza di lei, semplicemente quell’opera non è la stessa cosa, e non lo è nella sua struttura fondamentale: l’interpretazione vocale e scenica. Ancora a proposito della Medea cherubiniana, Serpa e altri spendono parole nostalgiche su un’aspra polemica all’indomani di una storica recita romana, nel 1955. Vi furono coinvolti il musicologo Pannain, che accusò la Callas di esagerare il personaggio, trasformando la tenebrosa maga della Colchide in una forsennata. A difendere il fuoco callasiano intervenne Mario Praz, con un affondo memorabile: «Noi non siamo più capaci d’entusiasmo, amiamo leggere di cose forti, ma le nostre vite son fiacche e dozzinali, comprendiamo la critica e la filologia [...], le piccole Furie dei processi scandalistici, gli amori e gli odi che mordicano e squittiscono e si appiattano nelle case d`appuntamenti, ma non una leonessa, non Medea».
Ma non finì li, presero la parola, e ripetutamente, Ettore Paratore, Giorgio Vigolo, Pietro Paolo Trompeo... Si immagini oggi quale artista, creatore o esecutore che sia, potrebbe mai mobilitare un simile consesso di ingegni, per una sua performance: si immaginerà a vuoto. D’altronde, che si vada dal «qualcosa di stranamente magico è nella sua voce, una specie di alchimia di registri» di Vigolo, alla «musicalità quasi spaventosa» osservata dal direttore d’orchestra Tullio Serafin, alla «felice illusione dei sensi» per la quale, «voce e figura si fondono» attestata da Serpa, fino a quanti trovano legami arcani tra la sua forte miopia e le occhiate fulminee come gettate in profondi abissi, il segreto della Callas resta molteplice e variopinto come lo spettro luminoso uscito da un prisma. Si cerca la sua grandezza in questo o quel particolare, ma non si trova mai. Perché, proprio come gli artisti creatori, che passano per più fasi o stili, anche la Callas non fu sempre la stessa, e non solo per il timbro vocale, e non solo prima e dopo la drastica dieta, su cui tante congetture fisiologiche (non poco dilettantesche) si accumulano, senza cogliere l’esigenza profonda di metamorfosi, di sviluppo, propria del genio.