Recensioni / Rileggere Yona Friedman al tempo della Brexit

Il 1974, l’anno in cui Yona Friedman diede alle stampe Utopie realizzabili, era anche l’anno in cui, tra le altre mille cose, un pensatore anarchico come Colin Ward ripubblicava un testo chiave di Kropotkin, Campi, fabbriche, officine, e a New York si teneva la mostra Anarchitecture, a opera dell’omonimo collettivo artistico formato da Gordon Matta Clark, Laurie Anderson, Richard Nonas, Tina Girouard, Carol Goodden, Suzanne Harris, Richard Landry, Jene Highstein e Bernard Kirschbaun. Insomma, le utopie moderniste in campo architettonico e urbanistico erano in questione, largamente fuori moda, e la critica veniva mossa in campo tutt’altro che specialistico: erano gli artisti, i sociologi, i filosofi, gli attivisti politici ad accanirsi, ben più degli architetti stessi, contro la rigidità, la burocratizzazione, la cecità di quelle visioni utopiche per le masse.

Parlare allora, come faceva Friedman nell’introduzione al volume, di fallimento dell’utopia democratica e della comunicazione globale, o meglio «dei due “cattivi dei nostri tempi, che sono “lo Stato mafia” e “la mafia dei media”» era moneta comune, quasi una banalità. Tuttavia la sua teoria delle utopie realizzabili, vale a dire quelle strettamente legate al vincolo della piccola dimensione, delle piccole comunità (i “gruppi critici”, secondo la sua definizione, cioè quelli abbastanza piccoli da consentire una comunicazione efficace tra i membri), è stata oggetto di un repechage di culto alla fine del secolo, in piena era Fukuyamesca, nei circuiti dell’arte e dell’architettura. L’attacco all’universalismo, agli schemi “paternalistici”, alla smania di organizzare gli altri, e i contrapposti modelli di autorganizzazione e di autopianificazione hanno cominciato a circolare senza sosta tra biennali, scuole, workshop, riedizioni, consacrati da un rito di passaggio fondamentale: un’intervista di San Hans Ulrich Obrist.

In Italia è stata Quodlibet, grazie alla passione personale di Manuel Orazi, a tradurre il tomo nel 2003, inserendolo in una costellazione di teorici accomunati dalla critica alla ratio pianificatoria, da Koolhaas a Ivan Illich a Clément. Nello spazio di poco tempo moltissime pratiche di progettazione urbana partecipata, esperimenti sociali, operazioni di arte pubblica, studi sugli insediamenti informali furono etichettate come “utopie realizzabili”. Quando poi, dopo la crisi, ha preso corpo la teoria dei beni comuni, in concomitanza con l’ondata di occupazioni dei luoghi di produzione culturale, le idee di Friedman sui villaggi urbani e delle piccole comunità egualitarie risuonavano ancora, mischiate ai discorsi sullo spossessamento e la finanziarizzazione dell’economia globale.

Ma negli stessi anni stava prendendo piede un altro genere di consapevolezza nella società globale: grazie alle analisi dei primi straordinari critici della rete, come Evgeny Morozov, e poi in maniera sempre più autoevidente, è diventato chiaro che internet e i social network non rappresentano affatto una occasione di democratizzazione della società, e che la retorica della comunicazione orizzontale, ancora ritenuta credibile ai tempi di Occupy Wall Street e della Primavere Arabe, è una sinistra panzana. Ora che abbiamo le puntate di Black Mirror, rileggere i ragionamenti che Friedman ha articolato nel lontano 1974 fa l’effetto di una profezia: «Il fenomeno del degrado dello Stato e dei media non è semplicemente il risultato della malafede dei politici o dei giornalisti, deriva invece da alcune impossibilità di cui non si parla mai: i “dirigenti” non riescono più a governare gli Stati, non riescono più a “restare in contatto” con una massa divenuta troppo ampia. […] Quando la folla dei governati, sentendosi abbandonata, comincia a pensare alla propria sopravvivenza sotto forma di piccole comunità in grado di bastare a se stesse e di assicurare i propri servizi pubblici, i governi, più attenti alle necessità di scena e alla “simulazione” che ad assicurare il buon funzionamento di servizi pubblici disfunzionanti, qualificano tali tentativi come “movimenti marginali”».
È sull’onda di questa nuova “attualità” di Yona Friedman che Quodlibet ha lanciato, a luglio 2016, una nuova edizione di Utopie realizzabili. Quello che non era facile prevedere è che proprio in quel momento gli eventi politici stavano prendendo una piega sconvolgente: nel giro di un semestre, con la sequenza Brexit, Trump e referendum italiano, un’oscura massa di persone attraverso lo strumento del voto – e non della rivolta né tantomeno della rivoluzione –, ha espresso la volontà di liberarsi di quelle forze politiche che governando hanno efficacemente implementato la diseguaglianza sociale ed economica a livello locale e globale. Massa oscura perché non omogenea, priva di qualsiasi programma comune, se non di assestare un colpo, anche effimero, a chi l’ha progressivamente impoverita o esclusa. Nessuna grande utopia universalista la anima, di quelle che Friedman definirebbe irrealizzabili: ma una cosa è sicura, che in questa massa, o meglio moltitudine, non traspare alcun desiderio di utopie realizzabili. Lungi dall’esprimere propensione per l’autorganizzazione, la massa informe sembra molto più attratta dalle promesse di più Stato, di più welfare, di tutte quelle forme di organizzazione e pianificazione “dall’alto” per anni bollate come “paternaliste” da sinistra e “assistenzialiste” da destra, che con tutti i loro difetti sono le uniche, per un lasso di tempo piuttosto breve, ad avere consentito l’attuazione di reali politiche redistributive.

Sfiancate dal lavoro precario, dall’erosione dei diritti e dallo spossessamento dei beni, le schiere dei Not-Have non ambiscono più che tanto a decidere, lontano dalla dogmatica burocrazia, come costruire il proprio spazio abitativo o quali cure propinare alla prole, ma con ogni probabilità desiderano case e ospedali pubblici decenti. Alla libertà di autogovernare ogni aspetto della vita in comunità autosufficienti forse preferiscono la libertà di delegare almeno una parte della risoluzione dei problemi a un’organizzazione complessa.

In un contesto del genere – peraltro dagli esiti largamente imprevedibili – a fare perdere smalto alle argomentazioni di Friedman è il loro altissimo tasso di astrazione strutturale e linguistica. Il che è paradossale, perché in ogni scritto o intervista Friedman non fa altro che ribadire, fino alla nausea, il proprio impegno nella lotta all’astrazione, definisce il proprio linguaggio piano e semplificato e si vanta di avere inventato un sistema di fumetti in grado di comunicare qualsiasi concetto ai più estranei tra i propri interlocutori. Di fatto, invece, Utopie realizzabili è un libro costruito per assiomi indimostrabili e definizioni aleatorie, ancorché suggestive – in linea con la saggistica dell’epoca – e completato da disegni e schemi la cui primitività non fa che infittire l’opacità del significato.

Questo stile offre però un grande vantaggio, soprattutto rispetto ai nostri tempi imbevuti di storytelling: privo di smancerie pittoresche e quadretti idilliaci, l’universo friedmaniano dei piccoli gruppi descrive apertamente la natura claustrofobica della comunità. Se l’unica condizione per eliminare la gerarchia nelle relazioni è costruire un “gruppo critico” sufficientemente piccolo da garantire l’accesso alla comunicazione, la chiusura è fondamentale, e la durata dell’utopia è in ogni caso molto limitata. Questo significa che proprio i casi meglio riusciti sono inesorabilmente destinati al fallimento, perché è impossibile chiuderli sul serio.

E meno male, viene da dire.