La conoscenza dell’opera di Imre Toth (morto nel 2012 a Parigi) continua a imporsi, nonostante il trascorrere degli anni, come un tesoro prezioso e proficuo a cui poter fare spesso riferimento. Filosofo e storico della matematica, Toth rappresenta un importante punto di riferimento per chi si interessa delle questioni legate ai dubbi di natura matematica e filosofica: ma anche nei suoi testi legati al ragionamento squisitamente filosofico, e senza dubbio di carattere più specialistico (si prenda a titolo di esempio La filosofia della matematica di Frege, edito da Quodlibet nel 2015), si trova sempre un sentiero percorribile con più semplicità, frutto di una speculazione dal carattere divulgativo nelle sue argomentazioni. Perché per Toth la matematica ha sempre rappresentato la via per tentare di rispondere alle domande ineludibili della nostra realtà, ai dubbi della contemporaneità e agli interrogativi dell’uomo sul suo posto in questo mondo. Toth in particolare amava le teorie non euclidee, quelle che riescono a far pensare l’impensabile. Non è un caso che la sua opera più singolare e affascinante, No!, sia un «palinsesto di parole e immagini», un libro di circa cinquecento pagine che rompe con ogni idea di sistematicità e che è composto, realizzando l’aspirazione di Walter Benjamin, solo da citazioni che, nel loro insieme, generano un flusso in cui si mescola la sua voce con quella di Orwell, Gauss, Husserl, Thomas Mann e Dante, con l’obbiettivo di investigare intorno alle controversie della rivoluzione non euclidea.
L’accurato lavoro di Quodlibet rende ora disponibile per i lettori italiani Il lungo cammino da me a me (arricchito da un lungo ed appassionato saggio di Giancarlo Gaeta), il libro ideale per addentrarsi tra i dubbi di Imre Toth e, in alcuni passaggi, fiaccola indispensabile per illuminare percorsi senza luce. Si tratta di una serie di interviste che costituiscono il racconto di formazione di un matematico e di un filosofo, dalla sua nascita fino alle questioni più personali e filosofiche, con la bussola dello studio a fare sempre da faro. Le interviste sono state realizzate da Péter Várdy, scrittore ungherese che ha incontrato Toth durante un’inchiesta, compiuta verso la fine degli anni Ottanta, sulla realtà del mondo ebraico in Ungheria prima del nazismo. Quest’attenzione all’identità ebraica è il carattere più importante di questo libro, perché spesso vi risuonano le domande di Toth sul ruolo, di estrema contemporaneità, dell’ebraismo, e sul suo rapporto col mondo.
Con un’efficacia narrativa che porta a leggere le prime parti quasi con la passione per un grande romanzo, si parte dalla descrizione del microcosmo di Szatmár in Transilvania negli anni Venti del Novecento, luogo di nascita di Toth e culla di un’importante comunità ebraica in costante pericolo. Toth attraversa tutto il secolo, riflettendo sugli orrori subiti dalla popolazione ebraica (alla deportazione dei genitori scampò per una coincidenza) e sulla progressiva consapevolezza della propria appartenenza. All’interno della vasta letteratura incentrata sul tema della Shoah, quello di Toth è un caso singolare: non si tratta infatti del racconto in prima persona di una vicenda tragica, di una riflessione sulla perdita di razionalità e umanità dell’uomo né del tentativo di riabbracciare i paesaggi della patria: Il lungo cammino da me e me è piuttosto il tentativo di restituire le ultime immagini di un mondo cancellato: del quale si descrivono forme sociali, ambienti, tensioni e stimoli intellettuali: «Nella nostra ricerca siamo stati attenti in primo luogo alla vita quotidiana: com’è stata e com’è cambiata nel corso del secolo, sul piano dell’ambiente, dei rapporti, della scuola, della strada, della relazione tra ebrei e non ebrei».
Il libro non si ferma agli episodi legati alla seconda guerra mondiale, proseguendo poi con ampio respiro verso la nostra contemporaneità. Dopo la guerra infatti Toth si troverà di nuovo in una situazione complessa, per il suo posizionamento all’interno del Partito Comunista. Come racconta a Várdy, Toth era ebreo e comunista in un periodo in cui questa doppia appartenenza non rappresentava un connubio felice. Finita la guerra, infatti, Toth partecipa alla ricostruzione della nuova Romania ma proprio a causa del suo credo subirà, non unico all’epoca, processi antisemiti organizzati dal partito nei confronti dei propri tesserati. Il giovane filosofo si salverà un’altra volta, grazie ai suoi meriti antinazisti, e inizierà a insegnare all’università di Bucarest prima di essere chiamato in Germania, con l’aiuto di Karl Popper, raggiungere gli Stati Uniti e infine stabilirsi definitivamente in Francia dove morirà nel 2010.
Nel suo saggio che chiude il libro, emblematicamente intitolato Una difficile eredità, Giancarlo Gaeta analizza il lascito intellettuale di Toth e scrive che il filosofo appartiene a quella straordinaria cerchia di intellettuali ebrei del Ventesimo secolo, alla pari di Hannah Arendt, Simone Weil e Primo Levi: autori dalla mente razionale, capaci di distinguere le vicende e le tragedie dell’ebraismo da quello che Gaeta definisce, sulla scia di Arendt, «amore per il popolo ebraico».
L’approdo di Toth a una riflessione compiuta sull’ebraismo passa da tappe complicate e da difficoltà ideologiche e psicologiche. Il capitolo centrale di questo libro, che poi dà il titolo alla raccolta, rende conto di questo intimo percorso personale, che trova la sua massima intensità nel periodo trascorso in Germania, e costituisce un documento indispensabile per analizzare aspetti personali che accomunano l’esperienza di Toth a quella di tanti ebrei del Novecento: «Fu in Germania che per la prima volta mi capitò di pronunciare, con profonda convinzione, la frase: “Sono ebreo”. Così, al presente singolare, alla prima persona. Avevo quasi cinquant’anni quando la pronunciai in questo modo per la prima volta, sebbene in me stesso l’avessi sempre accettato».