Il volume, preceduto da un’ampia Introduzione di Vincenzo Lavenia dal titolo – Il Democrates nel dibattito cinquecentesco sulla fede e le armi – presenta il testo del De convenentia militaris disciplinae cum Christiana religione Dialogus, qui inscribitur Democrates, pubblicato a Roma per i tipi di Antonio Blado nel 1535, da un ormai quarantacinquenne Sepúlveda, che viveva in Italia da un ventennio e che proprio in quel momento maturava la decisione di tornare nella natia Spagna al seguito di Carlo V. Il testo durante la vita del suo autore avrebbe avuto solo un’altra edizione nel 1541 a Parigi per i tipi di Simon Colineus all’interno dell’Opera nuper ab eodem authore recognita, e Lavenia opportunamente dà conto in nota delle varianti tra le due impressioni offrendo al contempo anche un utile raffronto con la versione manoscritta dell’opera, il Barberinianus Latinus 1896 conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Un confronto con il Codice Barberiniano risulta utile per complicare, infatti, come vedremo, la gamma degli interlocutori ideali del Dialogus. Che questo abbia di mira inizialmente Erasmo è reso evidente fin dall’inizio dell’opera in cui Sepúlveda, ricordato il colloquio avuto a Bologna con molti nobili spagnoli al seguito di Carlo, si dichiara preoccupato nel vedere molti di loro «turbati da scrupoli riguardanti la fede». All’interno della cultura cristiana, acclimatatasi ormai da tempo con il gladius e con l’opera sua, erano sorti alcuni che, «studio rerum novarum infiammati», avevano sconvolto antiche credenze seminando dubbi nelle coscienze. Il più grave tra questi per le conseguenze pratiche che poteva avere, riguardo alla Spagna e al suo destino imperiale e riguardo all’Europa e alla sua necessità di respingere l’avanzata dei turchi, era quello, apertamente dichiarato, «di temere che un soldato valoroso non possa soddisfare allo stesso tempo agli obblighi militari e ai precetti della fede cristiana» (p. 9).
Nonostante il nome di Erasmo non fosse esplicitamente fatto – quell’Erasmo con cui aveva polemizzato nel ’32 con l’Antapologia pro Alberto Pio Comite Carpiensi – non era difficile per i lettori del Dialogus riconoscere il suo profilo dietro il seminatore di dubbi nella gioventù spagnola ed europea riguardo alla compatibilità tra Cristianesimo e guerra. Se il Dio del popolo ebraico aveva amato rappresentarsi come il Dio degli eserciti, il Cristo lo aveva invece fatto scorgere dietro la figura del padre misericordioso e aveva egli stesso predicato l’amore e la pace come valori supremi del proprio messaggio morale. Convinto del primato di valori come questi, Erasmo, prima nell’Enchiridion, poi nel Dulce bellum inexpertis nella Querela pacis fino all’aspro dileggio dello spirito guerriero dello Iulius exclusus, aveva presentato il Cristianesimo come sequela Christi e dei suoi valori tra i quali, come egli stesso disse, la pace era «summa nostrae religionis», occupando perciò in essa un posto di assoluto rilievo. Cadevano dunque, sotto la penna di Erasmo, gli ideali che avevano consentito al Cristianesimo di innervarsi nel saeculum, anzi di dirigerlo facendo leva sulla completa assimilazione cristiana delle virtù dei pagani: la forza, la gloria, la magnanimità. Quel che la renovatio avrebbe comportato sarebbe stata la riproposizione di un’aspra tensione tra Cristianesimo e mondo e non la pacifica mondanizzazione dell’evangelo.
Questo era dunque il primo pericolo contro cui Sepúlveda, l’umanista nutrito di Cicerone, di Aristotele e dei classici che amava e che voleva condurre dentro il Cristianesimo, intendeva schierarsi. Questo pericolo di caratura eminentemente europea non era però l’unico che animava il Dialogus, perché, come Lavenia spiega in modo convincente, nell’Italia degli anni Trenta del Cinquecento se ne poteva intravedere anche un altro, di non minore urgenza. Quest’altro pericolo correva parallelo rispetto a quello provocato da Erasmo e veniva da Machiavelli e dai suoi Discorsi, che nel 1531 erano stati pubblicati a Roma da Antonio Blado, lo stesso editore cui Sepúlveda avrebbe poi affidato il suo Democrate. In questi non si diceva che i cristiani non dovessero fare la guerra per amore del Verbo e del suo apprezzamento dell’amore e della pace, ma che essi fossero ormai incapaci di farla, a causa di quella sorta di solvente dell’ethos pubblico e guerriero, che nel mondo antico era animato da una maschia religione, rappresentato ormai dal Cristianesimo e dalla sua scala di valori tesi più verso l’umiltà e l’abiezione che verso la gloria.
Volendo che il Cristianesimo si insignorisse nel mondo non per attenderne e auspicarne la fine, non per trascenderlo, ma piuttosto per abitarlo come la sua vera patria, Sepúlveda non poteva non reagire a questa doppia ma insidiosa “provocazione”. Eccolo allora accusare da un lato i novatori come Erasmo e dall’altro coloro – Machiavelli, dice espressamente il Barberiniano latino citato a p. 222 che non si vergognavano di condannare la religione cristiana «perché renderebbe gli uomini fiacchi e – ad imperandum ineptos» (pp. 222-223). Se il Cristianesimo doveva invece imperare sul mondo, tanto su quello vecchio, sconfiggendo i Turchi, quanto su quello Nuovo come avrebbe più tardi scritto nel Democrates alter, sconfiggendo i suoi barbari abitanti per indurli alla fede, era necessario che si riappacificasse con le armi e con una virtù che, come la gloria, rischiava di essere posposta all’umiltà, finendo per lasciare l’uomo pascersi nell’ozio.
Questi i motivi ispiratori del dialogo e dell’intervento di Democrate, suo protagonista, che non occupa però il campo da solo, come avverrà più tardi nel Democrates alter, ma prende in carico, sia pure per confutarle con serietà ed impegno, le obiezioni rivoltegli da Leopoldo, un tedesco in odore di luteranesimo e da Alfonso, un uomo d’armi spagnolo tentato anche lui dal dubbio su di sé e sulla sua professione. Per risolvere quei dubbi Sepúlveda non poteva che percorrere una via obbligata, che era quella di riconnettere quel che Erasmo aveva in un certo senso diviso. Se avesse dimostrato che il Dio dei cristiani non era diverso da quello degli ebrei, gli sarebbe, infatti, riuscito il compito di attenuare i precetti pacifisti del Vangelo tramite la forza dei contenuti dei precetti “bellicisti” dell’antica legge. Questa, come lex naturae, risultava vigente anche dopo la venuta e la predicazione del Cristo, che non aveva abrogato l`antica legge ma aperto la strada a due modi di vivere, entrambi legittimi anche se non ugualmente meritori. Si poteva tentare di imitare sulla terra la vita di Dio, per quanto fosse possibile, ma si poteva anche dedicarsi «a reggere con virtù uno Stato o parti del governo di una comunità), (p. 45). La vita attiva e la vita contemplativa erano entrambe necessarie, entrambe degne per i cristiani ed entrambe soggette alle loro specifiche regole che non chiedevano al mondo di divenire perfetto, ma solo giusto: «restituire il male a chi fa del male è opera di giustizia, non reagire all’offesa è invece opera di perfezione» (p. 51). Il Vangelo non chiedeva dunque al mondo di consumare la propria natura, ma solo di tendere ad un perfezionamento progressivo, ad un processo continuo dentro il quale potevano continuare a valere gli istituti del mondo e della politica, come dimostrava la risposta di Giovanni Battista (Lc 3, 14) a quei soldati che gli chiedevano cosa dovessero fare: «non maltrattate nessuno, non arrecate danno, siate contenti del vostro soldo». Sepúlveda sapeva quanto ai suoi tempi fosse difficile trovare soldati che si confacessero a quei precetti: «Immaginiamo infatti un soldato buono d’animo e valente (ma trovarne uno è rarissimo)» (p. 221), ma questa constatazione di un fatto non gli impediva di reclamare, in linea di diritto, la forte demarcazione teorica tra la guerra e il latrocinio, che era stata invece offuscata da Erasmo.
Guadagnato il primo risultato del suo lavoro con la riabilitazione della guerra e delle armi dentro alla vita cristiana, Sepúlveda affrontò poi il secondo, quello più insidioso relativo alla compatibilità tra la magnanimità, la gloria e la sequela Christi. Qui non aveva alle spalle, come nel primo caso, una vetusta tradizione, non Agostino, né Bernardo; si rivolse allora al suo Aristotele, che aveva tradotto e chiosato e che invitava a considerare le virtù come strettamente connesse tra loro, come aveva fatto nella Nicomachea al 1145a, invitando a non toglierne una se non si voleva correre il rischio di far crollare il loro intero edificio. Oltre le virtù teologali si dovevano ammettere anche quelle cardinali, e tra queste ammirare la forza e l’invincibile saldezza d’animo dei martiri, che Cipriano aveva giustamente nominato come «milites fortissimi» (p. 106).
Per completare la vittoria sui suoi avversari restava da chiarire un ultimo punto, che consisteva nella difficile conciliazione tra l’amore della gloria, proprio dei soldati, e l’invito all’umiltà rivolto ai cristiani. Anche qui soccorreva la lezione dei filosofi antichi, che dicevano che l’amore della gloria era espressione del desiderio della lode “sociale” dei buoni e che dunque la sua ricerca era meritoria all`interno di una società dove fossero apprezzate le virtù e fossero lodati i buoni. Per quanto riguardava poi nello specifico l’umiltà, o questa era finto disconoscimento dei propri meriti, allontanamento dalla verità, insomma disprezzabile inganno, come sembrava potersi desumere addirittura da Agostino (p. 177), oppure risultava connessa alla grandezza d’animo. Essa, infatti, «non è concessa a uomini di scarsa virtù che riconoscono la propria pochezza, ma solo a coloro che, essendo in possesso di un grande senso della virtù, rivolgendo tuttavia il pensiero alle cose di cui mancano e che sono inferiori agli onori che sono loro attribuiti, imbrigliano le pulsioni dell’animo e riveriscono non solo Dio e le sostanze spirituali, ma anche le persone che riconoscono superiori in qualcosa» (pp. 167-169). Il riconoscimento del fatto che «ciascuno, per quanto umile, deve giudicare e parlare di sé secondo la realtà» (p. 177) restaurava dunque di questa realtà le diverse gradazioni, che non andavano annullate, ma piuttosto viste come quella scala capace di assegnare a ciascuno, in un mondo fortemente gerarchizzato, il posto che gli spettava secondo i suoi meriti. Meriti che, tracciati sulle orme più della fattiva Marta che della contemplativa Maria, avrebbero consentito ai buoni una legittima conquista del mondo ed un’espansione del Cristianesimo non più turbato da quegli scrupoli che ne ritardavano la compiuta egemonia cui era destinato.