Recensioni / Altro che “Roma ladrona”, Roma derubata

Dolores Prato, intellettuale comunista, antifascista, anticlericale, l’aveva scritto: la Capitale aveva senso solo come città papalina, dall’arrivo dell’Italia unita in poi è stata carne per palazzinari e speculatori

Roma, scriveva Dolores Prato mentre la città si preparava a festeggiare il suo primo secolo da capitale d'Italia (1871-1971), avrebbe dovuto restare “città libera sede del papato. Niente annessione”. Lavorò per mesi al libro Voce fuori coro, ma nessun editore volle pubblicarlo, né tantomeno il giornale che aveva perdutamente amato, mai davvero contraccambiata, Paese Sera, le concesse la rubrica che tanto desiderava o lo spazio opportuno per dire che Roma l'avevano trucidata i piemontesi e il Risorgimento.

Pensate che bomba: un’intellettuale comunista, antifascista, femminista per vita e non per ideologia, una in cui “la madre non s’integrava alla donna”, arrivata dalla provincia (Treja, Marche) dove era “nata sotto un tavolino” (così inizia la sua autobiografia, “Giù la piazza non c'è nessuno”), che negli anni Settanta, mentre sindaci, comuni, governo si impegnavano a propagandare il senso inamovibile dell'Unità d'Italia, intendeva predicarle contro poiché “siamo un paese di piccole repubbliche: una verità lapalissiana che nessuno riconosce” e dimostrare che tutti i guai di Roma erano cominciati quando venne sottratta al Papato e adottata per adottare la Nazione.

Da poche settimane Quodlibet ha pubblicato un volume che raccoglie tutto quello che Dolores Prato (che reato dimenticarla, ahi, sciocca Italia) scrisse sospirando, incazzandosi molto, mentre camminava per Roma allestita a festa e anche dopo, quando capì che quel progetto sarebbe rimasto sui suoi taccuini: oggi, finalmente, arriva in libreria, si chiama come avrebbe dovuto, Voce fuori coro ed è impreziosito dall'intenso commento di Valentina Polci.

Un'intellettuale comunista, antifascista, femminista scrive che Roma avrebbe dovuto restare “città libera sede del papato. Niente annessione”



Crediamo che Roma abbia l’ingovernabilità, la corruzione, il marciume nel sangue, che sia ontologicamente ministeriale, sorniona, violenta. Vediamo le amministrazioni sfasciarsi, le giunte crollare, i sindaci svenire, i passanti smarrirsi, le imprese scappare: deduciamo che Roma è ammalata di Roma e che a tenerla in vita sia il vampiro che chiamiamo potere.

Rispetto alla inevitabile linearità con cui la scuola impartisce la storia del nostro Risorgimento, facendo apparire Roma come l’eletta cui il paese che si andava unificando consegnava tutti i propri sforzi per farla splendere, Dolores Prato guida in senso contrario, raccontando la storia di una usurpazione e dei suoi – mai rimborsati – danni. L’unità cadde sulla testa dei romani (e di molti italiani) da un momento all'altro e, “volendo distruggere l'uomo-regione, non fece che incarcerarlo”. La breccia di Porta Pia (“il buco!”, lo chiama, con sprezzo, Dolores) si aprì e in città entrarono i liberatori, ma i romani non erano servi: erano popolo.

Roma non era tribù: era capitale. Non era Roma ad aver bisogno dell’Italia, ma l’Italia di Roma. Dopo il 20 settembre, gli amici del regime pontificio diventarono i “caccialepre” e i nuovi arrivati “i conquistatori”: furono loro a governare Roma come fosse Torino, convinti non solo che in un corpo trasteverino potessero funzionare organi sabaudi, ma pure che i colli e i loro scoscendimenti potessero rientrare in un reticolato di strade a scacchiera, dove il traffico, i pellegrini, i romani, i trapiantati, tutti quelli che passano sopra Roma, oggi, continuano a smarrirsi. Il borgo operoso ma non troppo, arancione, fluviale e placido fu tramutato in città simbolo di una Nazione effettivamente sconosciuta. Nel 1880, calarono le mani sulla città e la speculazione edilizia produsse mostri che a noi paiono (perché, in fondo, lo sono) monumenti. Dieci quartieri urbani nacquero sulle terre che vignaroli e piccoli ordini religiosi furono costretti a vendere a un cerchio ristretto di gruppi finanziari.

L’unità cadde sulla testa dei romani (e di molti italiani) da un momento all’altro e, “volendo distruggere l’uomo-regione, non fece che incarcerarlo”



I palazzinari arrivarono subito dopo. La Roma ladrona di C’eravamo tanto amati, quella della borghesia sconcia, arricchita e analfabeta, che costruì la sua fortuna sulla ricostruzione del dopoguerra, era antenata dei conquistatori che il Risorgimento regalò a Roma. La capitale papalina, crede Dolores Prato, non l’avrebbe mai consentito, ma proprio per questo è impossibile assolverla dal crimine d'abbandono.

Il cristianesimo aveva permesso che “la città che era stata per secoli un meraviglioso paese universale”, venisse ridotta a capitale di uno Stato particolare, annichilendo per sempre “la Roma dei romani che l’abitavano e del mondo intero che vi passava”. Il papato preferì il potere alla città, la sola in grado di dare ai popoli un senso universale. Quando la Chiesa s’inurbò e la sua città si statalizzò, il suo popolo divenne migrante. Carlo Levi condivideva molte delle considerazioni di Prato, ma non trovava, come lei, che lo spirito di Roma fosse perduto per sempre: riteneva che sarebbe rimasto eternamente contemporaneo, che nelle sue rovine non avrebbe smesso di brillare la luce della sua verità. Della oggi tanto discussa area di Tor di Valle, che la sovrintendenza difende, dopo decenni di abbandono, per impedire la costruzione dello Stadio, Levi scrisse che si trattava di uno degli innumerevoli “anonimi alveari” dove un popolo diverso da quello romano era finito a vivere, senza troppa speranza di trovare una definizione, ma verosimilmente condannato a rimanere un “proletariato in formazione”. Prato, invece, camminava per la città con lo struggimento che le derivava non da ciò che vedeva e dal segno impresso di una grandezza trascorsa, ma permeata: piuttosto, tentava di immaginare cosa non c’era più.

I capitali più propriamente romani, subito dopo l'annessione, erano quasi sempre legati al Vaticano, che non aveva ragioni per creare una filiera produttiva. Così, si stabilì a tavolino quello che oggi rimproveriamo a Roma: l'assenza di un tessuto produttivo efficiente e il tirare a campare dal turismo delle sue rovine



La Roma papalina era popolana e popolare, con i “preti rossi del germanico che la chiazzavano come un passaggio di papaveri”. Un borgo antico incapace di industria. I “conquistatori” lo trasformarono in capitale, ma se ne fregarono di dotarlo di ciò che serviva a una capitale. Noi crediamo che Roma sia ministeriale per diritto divino e invece lo è perché a nessuno convenne rischiare oltre la speculazione edilizia.

Sottolinea bene Valentina Polci che i capitali più propriamente romani, subito dopo l'annessione, erano quasi sempre legati al Vaticano, che non aveva ragioni per creare una filiera produttiva (e far poi i conti con gli operai e i sindacati, che a stento erano sopportabili in confessionale): la rendita immobiliare era più che sufficiente. Né dai gruppi industriali del resto del paese ci si poteva aspettare che finanziassero e promuovessero lo sviluppo di una città e del suo territorio che facilmente avrebbero poi potuto far loro concorrenza. Così, si stabilì a tavolino quello che oggi rimproveriamo a Roma: l’assenza di un tessuto produttivo efficiente e il tirare a campare dal turismo delle sue rovine. L’amato sindaco Ernesto Nathan, che la storiografia ci restituisce come uno dei padri nobili dell’amministrazione capitolina poiché aveva disegnato la “Terza Roma” (anticlericale, democratica, popolare e istruita) si allineò al progetto di una capitale che non disturbasse nessuno e vivesse di riesumazioni eccellenti. Tanto a destra quanto a sinistra, si volle optare per una città che vivesse di cultura di sé stessa, con ragioni anche nobili: “non so immaginare che si innalzino ciminiere accanto a obelischi”, disse il ministro Gaspare Finali alla fine del 1975, in un discorso agli alunni dell’Ospizio di San Michele.

Roma ladrona è un'invenzione orribile: è esistita ed esiste soltanto la Roma derubata.