Recensioni / Il viaggio di Vasta esploratore acuto di città fantasma

Si terrà giovedì alla biblioteca Tiraboschi l’incontro con il primo dei finalisti del Premio Bergamo «Nei luoghi abbandonati c’è un senso di turbamento»

Un viaggio attraverso California, Arizona, New Mexico, Texas, a esplorare vuoti, inseguire reliquie, visitare lacune: ghost town (città fantasma) più o meno farlocche, ippodromi abbandonati in mezzo al deserto, laghi in agonia trasformati in cimiteri di pesci, sterminati magazzini di aerei militari dismessi, carcasse destinate alla spoliazione. Da/attorno a un’assenza, un vuoto, un senso di mancanza e di sottrazione, nasce e si sviluppa «Absolutely Nothing» (Quodlibet Humboldt, 2016) di Giorgio Vasta, primo dei finalisti del Premio Narrativa Bergamo ad incontrare il pubblico giovedì 2 marzo, ore 18, alla biblioteca Tiraboschi di via san Bernardino 74. Il titolo deriva da «un cartello giallo, con una scritta nera» (De Andrè), a Barstow, sulla strada Los Angeles-Las Vegas: «Absolutely Nothing-Next 22 Miles» (assolutamente niente per le prossime 22 miglia): incantevole ossimoro, in quel suo accostare un assoluto di vacuità a un’oltranza di precisione misurativa.

Vasta, perché un viaggio all’inseguimento dell’absolutely nothing?
«Mi incuriosivano le ghost towns americane, poi la curiosità si è allargata a più varie tipologie di luoghi abbandonati. Ricostruirne l’origine e la biografia era insieme un necrologio. C’è nel mio immaginario un impulso verso la caducità degli spazi, delle cose che svaniscono. Diversamente dalle cose che nascono. Abbiamo miti, storie di fondazione, raramente dell’opposto. I luoghi nascono in un certo momento, ma quando finiscono è come se non finissero mai di finire. Come accade ai legami fra le persone. Per me tutto il racconto nello spazio vale da correlativo del rapporto umano. “Nothing” è correlativo di “nobody” , “niente” di “nessuno”. Quando un rapporto che si è considerato importante, se non fondamentale, viene meno, allora tutte le tue ambizioni, intenzioni, progetti è come si rivelassero nella loro insufficienza e inadeguatezza. Come quando costruisci un ippodromo in mezzo al deserto dell’Arizona».

C’è qualcosa del fascino delle rovine, del vedutismo rovinista? Dell’attrazione romantica per i cimiteri? Un senso/idea di pace, dopo gli spasmi dolorosi della vita?
«Nel senso opposto rispetto a quello tradizionale. Visitando una ghost town vera, non quelle “in posa”, messe in scena a uso turistico secondo l’immaginario western, così come visitando luoghi e case abbandonate, hai un senso di turbamento, avverti la tensione di quello spazio. È come percepire in filigrana la presenza: delle persone reali che hanno vissuto là dentro. Che sono stati corpi, biografie, legami, attitudini, peculiarità. Che ricostruisci e reinvesti a partire dalle vestigia: una collezione, un certo tipo di libri o riviste... Ciò che c`è di più simile alla percezione del fantasma. Uno che è contemporaneamente presente e assente».

Più volte, nel racconto, si sente il concretarsi di miti, di una massa narrativa, cinematografica, letteraria – insomma di immaginario sopra e oltre l’esperienza diretta, la presenza fisica nei luoghi.
«Come per molti occidentali della mia generazione, il mio immaginario si è strutturato a partire dalla cultura nordamericana. Le prime esperienze di bene e male all’interno del gioco avvenivano con indiani e cow boys (tra parentesi: in modo politicamente molto scorretto). Non su un eventuale versante italiano, chessò, partigiani e repubblichini. Tutto questo determina una conoscenza degli Stati Uniti, sommaria quanto si vuole, indipendentemente dall’esserci stati fisicamente. Quando poi ci si va, l’impressione è quella di tornare in un luogo ove si è stati attraverso l’immaginazione, la visualizzazione che si fa guardando un film o leggendo un libro. La velatura mitica, questo strato di narrazioni che riveste pressoché ogni luogo e circostanza nordamericana, è più forte del riscontro empirico. Pur essendoci stato di persona, per me Venice Beach, in prima battuta, continua ad essere quella dove Jim Morrison e Roy Manzanarek creano i Doors, quella dove si conclude “Cisco Pike”: quella, insomma, veicolata dalle narrazioni».

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