Il grande soprano nei ricordi dell’attore scomparso: su e giù per le scale, piedi in alto e testa in basso, continuava a cantare
Da studente universitario, a Firenze, andavo sempre all’opera in loggione, ed è là che ho visto per la prima volta la Meneghini Callas. Si chiamava così allora. O forse no; ai tempi dell’esordio al Comunale, con la Norma di Bellini, nell’autunno del 1948, in effetti non era ancora sposata con l’industriale dei mattoni veronese.
Era grassa quando era una habituée del teatro fiorentino, dove ha presentato tutti i suoi pezzi forti, la sua prima Norma e la sua prima Traviata, I Puritani, la Lucia, e anche alcune rarità, I Vespri siciliani di Verdi e Orfeo di Haydn, Armida di Rossini e Medea di Cherubini. Malgrado il peso, proprio in quest’ultima opera era sbalorditivo come si buttava su e giù per le scale, i piedi in alto la testa in basso, mentre continuava a cantare, emettendo delle note gravi pazzesche.
In camerino a farle festa
In quegli anni aveva un vocione di un colore bello scuro, ma con acuti e sovracuti sfolgoranti. Che esibiva volentieri: nella Lucia di Lammermoor cantava la cadenza col flauto stando ferma, non aveva bisogno di correre qua e là per la scena, la tragedia era tutta nella sua voce; in Armida restai stupefatto e conquistato dal rondò della protagonista alla fine del secondo atto, quelle variazioni che di strofa in strofa salivano sempre più verso l’alto. Del resto, tutto lo spettacolo – pensato, disegnato e inscenato da Alberto Savinio – era bellissimo: cominciava in bianco e nero (l’accampamento cristiano con le tende, le insegne, gli stendardi), e all’arrivo della maga pagana diventava a colori, proprio come nel cinema di quegli anni.
A Firenze la Callas non era ancora famosissima, noi andavamo a farle festa in camerino e lei era molto avvicinabile, le piaceva stare in mezzo alla gente, ricevere complimenti. Aveva avuto degli inizi assai difficili, in Italia ma anche prima in Grecia, per non parlare degli Stati Uniti, quindi era assai sensibile agli elogi.
Il salto di qualità si verificò a Milano: incontrò grandi registi, Visconti e Zeffirelli, si sottopose alla dieta. L’ho vista io al Biffi Scala immergere un fegato crudo in una tazza di brodo bollente, dava da mangiare alla bestia ch’era dentro di lei! Dimagrendo le era venuto fuori il naso, ma era anche diventata una donna bellissima. I capelli à bandeaux raccolti in uno chignon, indossava cappelli a tese larghe, completi tanto eleganti quanto sobri, gioielli preziosi. E Visconti la consigliava negli acquisti, aveva gusto, sapeva perfettamente cosa andava e cosa non andava per le donne. Aveva imparato no, non dalla madre, ma da uno dei suoi primi amici, il fotografo di moda Horst.
Noi di Firenze si andava apposta in treno fino a Milano, e Zeffirelli, di cui eravamo amici e che lavorava già alla Scala (non era più assistente di Visconti, ma scenografo e persino regista in proprio), ci lasciava i biglietti. Sempre posti di loggione. Alla fine ci accompagnava in camerino, e lei era sempre gentile, ma un po’ distante. Tra gli spettacoli visti a Milano restai folgorato dalla Traviata di Verdi diretta da Giulini e con la regìa di Visconti. La Callas era vestita come nella Parisienne di Becque (lo so bene perché è stato l’argomento della mia tesi di laurea) o come in un romanzo di Proust, un’epoca in cui le donne non morivano più di tisi, almeno non come prima, ma casomai di lupus. L’avanzamento temporale dell’ambientazione rispondeva a una duplice intenzione critica, riportare La traviata alla sua condizione di opera contemporanea e, al tempo stesso, celebrare la sua storicità, immergendola in un’atmosfera di sogno, comunicata dalle scene, meravigliosamente dipinte, di Lila De Nobili.
Passione e sofferenza
L’eleganza della Callas, il suo modo di vivere la parte, di essere Violetta, era fenomenale. E la cantante, poi: le agilità di «Sempre libera degg’io» erano velocissime eppure nitidissime, cariche di eccitazione e insieme di affanno interno. Nel secondo atto, immersa in un paesaggio agreste che si rifaceva agli impressionisti, Violetta, i capelli neri sciolti sulla schiena, si buttava su un divano di vimini e cantava attraverso gli intrecci del legno.Non stava quasi mai in piedi, giusto all' inizio e alla fine del duetto con Germont; a più riprese, anzi, si gettava in ginocchio davanti al padre e, poi, ad Alfredo. Ma anche nel primo atto si alzava il meno possibile dal pouf, i suoi Alfredo [alla prima del 1955 Giuseppe Di Stefano, nelle repliche Giacinto Prandelli, alla ripresa dell’anno successivo Gianni Raimondi, ndr] essendo tutti piuttosto piccoli; lei invece, specialmente per l' epoca, era una donna alta.
A me Renata Tebaldi piaceva molto, e ho sempre ritenuto la rivalità tra le due una montatura a fini pubblicitari. In certi momenti, la Violetta della Tebaldi era davvero affascinante, mi vengono in mente «Gran Dio, morir sì giovane» e, soprattutto, l’«Amami, Alfredo»: spiegava la voce, sovrastava l’orchestra e riversava sul pubblico un’onda di suoni mirabili. La Callas non poteva vantare la stessa rotondità e pienezza di timbro, ma il modo in cui, sempre nell’«Amami, Alfredo», rinforzava la voce procedendo verso l’acuto non era solo un effetto sonoro, traboccava di passione e sofferenza. Era un’artista misteriosa e sconvolta.