Quando un grande direttore d'orchestra incontrava la Callas. Per Vespri, Armida, Turco in Italia, Medea. Il suo ritratto inedito sarà pubblicato in un nuovo libro sul soprano. Rivelatore
Sono entrato al Comunale di Firenze a quindici anni, come secondo flauto dell'orchestra. C’era la guerra e in teatro facevano delle audizioni per integrare i vuoti lasciati dalla chiamata alle armi. Non ero ancora diplomato, ma fui preso lo stesso, e per circa due anni e mezzo, dal 1941 al 1943, sedetti accanto a Lamberto Vitali, strumentista eccezionale e uomo simpaticissimo: se qualcuno gli faceva ì complimenti per come suonava (accadeva spesso, eppure non aveva alcun titolo di studio), lui rispondeva: “Ma tu vedessi come gioco a i’ biliardo”. In effetti, stava sempre al Gambnnus [un locale nei pressi di piazza della Repubblica, ndc] e, anche se 'un ci capivo nulla, mi ricordo che vinceva sempre. Finito il conflitto mondiale, su segnalazione del mio insegnante di pianoforte, Rio Nardi, cominciai a ripassare gli spartiti ai cantanti, prima in una scuola privata, poi presso il Centro di avviamento lirico per giovani artisti annesso al Comunale. Ero di nuovo in teatro, e ci sono rimasto a lungo, prima con le funzioni di maestro sostituto, poi di suggeritore, infine come direttore musicale di palcoscenico. Ho fatto anche l’assistente di sommi direttori: Erich Kleiber, Antonio Guamieri, Arthur Rodzinski,
Dimitri Mitropoulos, Tullio Serafìn: preparai La donna di picche e La sagra della primavera – avrò avuto venti cinque anni – per Rodzinski, L’usignolo, sempre di Stravinskij, per Gui, Parsifal per Serafìn, che ripeteva: “fatelo dirigere questo ragazzo!”.
Nel 1951, l’anno verdiano, sedevo al pianoforte per la prima prova di sala dei Vespri siciliani, si apri la porta e Kleiber fece il suo ingresso con indosso un poncho e un sombrero. Appena entrato, notò un uomo piuttosto anziano seduto in un angolo; siccome non poteva trattarsi di un cantante, gli chiese a bruciapelo chi fosse. Era Meneghini. “Ah, bene, bene – gli disse il direttore, squadrandolo –, ora tomi pure in albergo, sua moglie la raggiungerà alla fine della prova”. Né lui né la Callas osarono contraddirlo.
Quando in teatro c’era bisogno, facevo ogni cosa. Una notte, nell'aprile 1952, corressi le parti orchestrali dell’Armida di Rossini insieme a Tullio Serafìn e a Bruno Rigacci, compositore e futuro direttore d'orchestra pieno di talento. Tutta la preparazione di quello spettacolo fu, del resto, parecchio affrettata e confusa; non fosse stato per il mestiere inattaccabile di Serafìn, per il suo istinto che gli consentiva d’inquadrare lo stile, il tono di un’opera con solo poche, sintetiche, sarei per dire “naturali” decisioni, e per la vocalità fosforescente, la prontezza e l’estro musicali straordinari della Callas, chissà se saremmo mai arrivati in porto...
L’anno dopo feci studiare la parte di Medea alla Callas: non ci limitammo a ripassarla o a fissare certi punti, si trattò proprio di fargliela memorizzare, note e parole. Aveva avuto poco tempo per impararla, dato che, come al solito, i finanziamenti per il Maggio erano stati sbloccati all’ultimo, e Francesco Siciliani, il direttore artistico del Comunale, legato alla Callas da profonda stima e amicizia, l'aveva contattata quando ormai mancava poco alla serata inaugurale. Per fortuna apprendeva rapidamente, era – come si dice – una spugna: leggeva molto bene la musica, possedeva una memoria pronta e un senso del ritmo spiccatissimo. Lavorare duramente non la spaventava. Forse anche a causa dell’argomento e dell’ambientazione greca si immedesimò da subito nel personaggio di questa matricida, era come se ce l’avesse dentro da sempre: il modo in cui, anche in sala, durante lo studio, accompagnava le frasi musicali con gli sguardi (di sottecchi, gli occhi socchiusi, oppure stralunati, le pupille spalancate) e con i movimenti delle mani era incredibile. Quelle mani, erano ipnotiche, non riuscivi a smettere di guardarle.
Più di trent’anni dopo avrei diretto Medea secondo la versione originale, in francese e con i dialoghi parlati: lo spettacolo, davvero bello, era di Liliana Cavani, e la protagonista una superba Shirley Veneri, eppure, per usare le parole del caro, indimenticabile Lele d’Amico, “la natura tutta interiore, solitaria, chiusa” della principessa-maga, la sua amarezza senza sorriso, la sua cupa ostinazione solo nella Callas le ho incontrate per davvero.
Ho anche avuto la fortuna straordinaria di accompagnarla in un concerto di beneficenza per la Croce rossa, l’11 giugno 1951. Lei aveva accettato di cantare solo a condizione che al pianoforte ci fossi io. Nel programma volle a tutti i costi inserire le Variazioni di Proch, “Deh, torna, mio bene”, con gli abbellimenti che eseguiva la sua insegnante spagnola. Siccome però non si trovavano nel Ricci né esistevano in forma scritta, lei dovette cantarmeli più volte, e io trascriverli nota per nota. Fu davvero una bella fatica, per lei e per me. Questo pezzo di Proch prevede un flauto obbligato in dialogo con la voce, al modo della cadenza apocrifa nella Lucia di Lammermoor. Così, a un certo punto, lasciai il pianoforte per impugnare il flauto: un colpo di scena, non c’è che dire! Non è una leggenda, è la pura verità. Di quella serata resta una foto che ritrae una donna di una certa ampiezza accanto a un uomo di una certa magrezza.
Ho collaborato con lei anche fuori Firenze. Nell’autunno 1950 presi parte come sostituto agli spettacoli dell’Anfìparnaso all’Eliseo di Roma: fu quando Maria interpretò Fiorilla nel Turco in Italia di Rossini, un’autentica riscoperta. Alta, imperiosa, con una voce che allora non conosceva limiti, era uno spasso vederla aggirarsi tra le scene surreali, il cielo solcato di pesci, dipinte da Mino Maccari, mentre faceva la smorfiosa e la maliarda. Ma la scena più incredibile accadde il giorno successivo all’ultima replica del Turco, il 30 ottobre, quando mancava poco all’inizio della prima assoluta di Job, la “sacra rappresentazione” di Luigi Dallapiccola, titolo conclusivo della stagione: la Callas, in compagnia di alcuni colleghi, occupò il palcoscenico dell’Eliseo, si mise a sedere e non si mosse finché non ottenne tutti i soldi che le dovevano. La critica aveva elogiato l’iniziativa, ma il pubblico pagante era stato scarso, molto scarso.
L’ultima volta la rividi a Chicago nel 1974, quando partecipò al convegno su Verdi da me voluto per la Lyric Opera insieme alla Chicago University e all'Istituto di studi verdiani di Parma, ma un ricordo divertente è legato al mio matrimonio con Rosanna, celebrato nel luglio 1953. Nel corso del viaggio di nozze passammo da Verona, dove la Callas era impegnata in Aida con la regia di Pabst e Serafìn al podio. Quando Meneghini e la Maria vennero a sapere delle mie nozze dichiararono solennemente di volerci fare un regalo. Fu così che ci portarono in un bar di piazza Bra, e il dono si risolse in un caffè e un analcolico rigorosamente consumati in piedi.