A quasi quarant’anni dalla scomparsa, avvenuta a Parigi, nel settembre del 1977, un poderoso volume miscellaneo, firmato a più mani, ricostruisce il profilo del soprano-icona del melodramma: “Mille e una Callas” è il titolo scelto da Luca Aversano e Jacopo Pellegrini, curatori minuziosi delle 640 preziose pagine di testo, pubblicate da Quodlibet Studio, per raccontare secondo un percorso inedito e curioso una delle figure cardine del Novecento. Scandito in sei parti, dai contenuti accattivanti, spazia dal tema della voce, ai ruoli in scena, alla creazione del mito. I tanti ricordi personali di chi fu nel tempo vicino alla cantante, siglano un originale modello di scrittura musicale, fondendo cronache, storia, analisi critiche e affetti. Tra i saggi imperdibili quelli di Elio Matassi (“La voce come evento”) in apertura, di Franco Serpa (“Medea riconosciuta”), di William Weaver (“Confessioni di un fan”). E di Franca Valeri (“Indimenticabile Maria”) che qui anticipiamo, per gentile concessione dell’editore.
Indimenticabile Maria (di Franca Valeri)
È frequente nelle nature artistiche avere due facce. Questo è stato evidente per Maria Callas. La Maria amica che abbiamo conosciuto prima che la mannaia Onassis si abbattesse sulla sua vita era “una” fino alle quinte del suo magico regno. Spesso allegra, altrettanto spesso preoccupata, ambiziosa, avanzava con simpatia una ingenua esigenza di essere “al centro”, esibiva con soddisfazione il suo dimagrimento. I suoi collaboratori come suo marito, i direttori d'orchestra come i colleghi, gli amici assiepati in teatro, tutti sapevano che il suo perfezionismo non li avrebbe mai traditi. Una grande magnifica professionista si presentava nelle vesti di Norma. Qui era ancora Maria.
In quale istante nasceva la sua capacità di essere “oltre”? Ecco la Callas interprete miracolosa: il suo imprevedibile gioco fra le sue note e il suo cuore, quelle misteriose intuizioni incantano sempre la nostra emozione.
I ricordi della nostra amicizia sono intensi, ma non sono moltissimi: eravamo tutte e due nel pieno del nostro lavoro, ci è costata molti aerei, erano anni in cui la vita era anche divertente.
I ricordi si depositano senza regole: Karajan che salta come un ragazzino da un motoscafo a Ischia e va incontro a una Maria colla testa ancora piena delle note di Anna Bolena, tanto che mi sembrava distratta.
Maria, flessuosa in un costume bianco fin de siècle, è Fedora, io sono in palco alla Scala e lei fra le braccia di Corelli. Spira, i grandi occhi spalancati. La voce di Meneghini sulla mia spalla rompe un po’ l’incanto: «Guarda la Maria che muore con gli occhi aperti».
I Vespri siciliani alla Scala, 1970, applausi finali, Maria si affaccia elegantissima, ospite attesa dalle voci di corridoio, e tutto, proprio tutto il teatro gremito si volta verso il suo palco di proscenio con un applauso fragoroso. Lei si ritira con un piccolo gesto regale. Dopo tutto è Maria Callas, anche se non è stato gentile per i cantanti.
L’ultima volta che l’ho ascoltata, alla Scala, nella Medea del congedo, sottilissima, non contenta, mi ha detto col suo incancellabile accento veneto: «Franca… son stanca».