Recensioni / Maniaco del lavoro scrupoloso

La bibliografia di Céline in Italia conosce continui aggiornamenti. Da quel 1964 che vide la traduzione di Mort à crédit a cura di Giorgio Caproni, romanzi e pamphlet sono stati via via pubblicati e ripubblicati dalla grande editoria – Einaudi in primis – con traduzioni puntualmente ingegnose (Celati, Guglielmi, Raboni, Pontiggia, Ferrero) per l’arduo compito di restituire Céline.
Negli ultimi anni poi, oltre a biografie e studi critici, sono usciti pezzi del vasto epistolario. L’ultimo, e forse il più interessante, è la corrispondenza con gli editori sulfurea e scanzonata, a tratti d’irresistibile comicità; e certo non si capirebbe tanta libertà di sberleffi, ironie e minacce rivolti a rispettabili patron di case editrici come Denoël e Gallimard senza la spavalda autoconsapevolezza d’essere il più grande e innovativo scrittore del secolo, anzi “il demolitore della porta di quella camera in cui stagnava il romanzo sino al Voyage”. Il Viaggio al termine della notte (1932) – assicura Céline – “è pane per un intero secolo di letteratura”. E in effetti, ombra di Proust a parte, è lui il gigante del secolo.
Per descrivere la sua opera prima, Céline usa svariate perifrasi musicali (“Tutto ciò è perfettamente orchestrato”, “Una specie di sinfonia letteraria”, “Fa pensare anche al genere Opera”); più tardi giungerà alla formula iconica di “Petite Musique” per indicare il laborioso scardinamento sintattico e la “resa emotiva” e ritmica che, sole, possono garantire al romanzo una vitalità messa in crisi dai nuovi mezzi del cinema.
Oltre che “stilista”, spesso con ambigua modestia Céline si autodefinisce “operaio”, “maniaco del lavoro scrupoloso”, non senza sussulti di vittimismo (“Odio quello che faccio, ma lo faccio perfettamente”); un operaio, però, “che vuol essere pagato in contanti, alla consegna del lavoro, chiaro, preciso, cash, senza storie”. Da qui continue diffidenze e proteste per gli emolumenti non adeguati, le dubbiose tirature, la pubblicità insufficiente riservata ai suoi libri (indicati più volte, affettuosamente, come le “mie bestie”). Su questo registro di sfiducia e di tendenziale isolazionismo si muovono trent’anni di epistolario, dal 1931 al 1961, poco cambia che scriva nel pieno dei riconoscimenti a Parigi o dal gelido e ingiusto esilio finlandese di Klarskovgaard.
Due ossessioni, non meno cocenti di quelle pecuniarie, agitano Céline e sono indice d’una maniacale cura del testo a stampa e della veste grafica. La prima è quella delle bozze che genera frequenti allarmi per le licenze dei correttori (“per carità non aggiunga una sola sillaba al testo senza avvertirmi! In un attimo farebbe crollare il ritmo”; “con o senza il mio accordo non dovete sopprimere nemmeno una lettera”). L’altra riguarda le copertine dei volumi per le quali, anche dall’esilio, invoca la sobrietà (“semplicissima, classica, niente piaggerie, niente colori, asciutta”).
Per l’operaio Céline gli editori sono sostanzialmente sfruttatori, “ruffiani delle meningi”; il loro establishment, un covo di incapaci e vacanzieri. Passato nel 1951 alla Gallimard, la ribattezza sempre con mille nomignoli, a colpi d’ascia (“NNNNRF” “Gallimerda”, “Nennereffe”, “il ghetto N.R.F., frocio-gaullista-partigiano”). Decisivo per la mediazione è stato il giovane Pierre Monnier che ha aiutato lo scrittore negli anni finlandesi; la corrispondenza con lui è più amicale, come del resto quella con un altro giovane, Roger Nimier, unico della Gallimard a non ricevere invettive e anzi piccole complicità.
Nimier era diventato il suo referente dopo che un’eminenza grigia della “NRF” come Jean Paulhan (tra i primi difensori di Céline dalla torbida accusa di collaborazionismo) aveva rotto la corrispondenza con lui, ferito dai molti epiteti (“languido anemone”, “povero servo”, “cesellante purista fedifrago”), e dalla rancorosa ingratitudine (“Le sue lettere sono divertenti”, conclude amaro Paulhan, “come possono esserlo le lettere dei bambini o dei pazzi”).
Impassibile di fronte alla gragnuola celiniana diretta e indiretta (“vecchio cioccolataio”, “faraone dei premi letterari”, “bandito”, “pagliaccio”, “disastroso salumiere”) è invece il potente e facoltoso Gaston Gallimard, misurato, sempre dialogante. Due forze contrattuali a tenzone, l’una necessitosa dell’altra.
Gaston scontava un peccato originale: aver perso due mesi e mezzo senza dare una risposta all’esordiente e scalpitante Céline circa l’eventuale pubblicazione del primo romanzo (colpevole, forse, la flemmatica lettura di Benjamin Crémieux). Così il Voyage – e più tardi anche il capolavoro successivo, Morte a credito – era passato a Robert Denoël, editore ben sensibile e spregiudicato (avrebbe pubblicato lui, fra il ’37 e il ’41, gli ustionanti pamphlet antisemiti) ma meno blasonato di un Gallimard.
Nelle ultime lettere si affaccia drammaticamente la lotta contro il tempo: Céline lamenta il ritardo della sognata canonizzazione nella Biblioteca della Pléiade “tra Bergson e Cervantes” (miraggio che si realizzerà nel 1962, un anno dopo la sua morte). Trova anche ingiusto che l’editore non gli procuri uno studioso delle sue opere, come avviene per quei detestati e misconosciuti confrères: da Gide e Cocteau a Giraudoux, Camus, Sartre, Aragon, Malraux, Genet (del quale fa a brani la prosa del Diario di un ladro) oltre a “stranieri” tra i più illustri: Joyce, Faulkner, Miller.
Spesso periodi interi di lettere, all’insegna dell’iperbole, sembrano usciti dai pamphlets se non dai romanzi: i sarcasmi e l’inventiva verbale, le paranoie, il pessimismo sull’uomo e le sorti progressive sono i medesimi. La traduzione di Martina Cardelli li rende assai bene e l’Introduzione è ammirevole.

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