Recensioni / Su Leopardi tanto discutere, ma...

[…] Occhi puntati dunque su Giacomo traduttore, ma anche sul Leopardi tradotto e da tradurre. Tra i contributi più interessanti quello del giovane Valerio Camarotto, che si concentra sul recanatese in quanto storico della traduzione, interessato cioè alle vicende del tradurre nei secoli passati, e in un rapporto competitivo con uno o più antecedenti. Del resto Camarotto ha da poco portato a compimento un duplice lavoro dedicato agli esercizi di traduzione leopardiani compiuti negli armi giovanili (Leopardi traduttore. La prosa 1816-1817, p. 194, e Leopardi traduttore. La poesia 1815-1817, p. 176, entrambi per Quodlibet, 2016, euro 18 ciascuno). Ed è leggendo questi studi pur dotti e documentati che emerge una crepa, minuscola, ma in grado di causare il crollo di interi sistemi interpretativi. Camarotto tratta del giovane Giacomo traduttore, indagando opportunamente fonti scritte, presenti o assenti nella biblioteca paterna, possibili mediazioni, ma ignora totalmente ancora oggi (dopo decenni di ricerche e conferme, a cominciare da quelle di Maria Corti e Karl Vossler) il principale precettore del nostro poeta-filosofo-traduttore, il canonico alsaziano Joseph Anton Vogel, in particolare l’unica, eppure importantissima testimonianza diretta dell’intenso rapporto formativo-consultivo tra i due: la lettera, presente anche nell’ultimo Epistolario leopardiano edito a cura di Brioschi e Landi) che l’erudito esule dalla Francia rivoluzionaria scrisse da Loreto al «Conte padrone stimatissimo» il 4 marzo 1817, risalente all’epoca che più interessava a Camarotto e riguardante tutta, guarda caso, questioni legate al tradurre. Non sembri inutile ricordarla qui, perché ciò che dice e sottintende questa lettera (e soprattutto ciò che Vogel è stato per la formazione di Leopardi, non solo in quanto traduttore) viene eluso non solo dalle ricerche di Camarotto, ma da tutti coloro che hanno scritto per il citato convegno. Rileggendo quella missiva si comprende infatti l’intensa e feconda frequentazione tra Giacomo e l’erudito alsaziano e quanto questi fosse consapevole dei talenti del giovane. Vogel apprezza la «fecondità e insieme l’eleganza e l’esattezza» delle sue traduzioni metriche di Omero, Mosco e Moretto (che Giacomo gli aveva inviato per una valutazione), ma non esita a intervenire laddove noti lacune: «Nella sua dissertazione dove accenna i suoi predecessori autori di batracomiomachie italiane Le è sfuggita la più recente data in luce a Venezia nel 1776 insieme e coll’Iliade da Cristoforo Ridolfi», scrive Vogel. Di seguito, su espressa richiesta di Giacomo, si leggono osservazioni del francese sul Salterio ebraico di Giuseppe Venturi, a proposito del quale Leopardi aveva pubblicato un Parere alcuni mesi prima. Osservazioni sulla lingua ebraica (che il canonico conosceva bene), ma anche sul tradurre: «Quanto poi alla traduzione poetica, si crede in oggi generalmente, che i salmi essendo in molte parti intraducibili letteralmente, conviene piuttosto sforzarsi di tradurre per così dire lo spirito che le parole dei Salmisti». Considerazioni quanto mai prossime a quella sensibilità europea (Vogel aveva studiato nella Strasburgo frequentata da Goethe, Herder e Lenz) che ancor oggi si definisce “inspiegabilmente” propria di Leopardi. […]