Recensioni / Un muezzin per Dante

In cd la memorabile “lectura” di Carmelo Bene

 Riascoltare la performance tutta fonetica dell'attore pugliese sulla Torre (era un anno dalla strage) ci precipita al cuore del ‘900: con gli eroi della Commedia come tremendi testimoni civili.

“Ma in Italia basta voltarsi un attimo e non si e più. Non si è più stati»: a due anni dall'uscita di scena, questo verso di Carmelo Bene suona come profezia del suo destino postumo. Un'intricata vicenda di diritti contesi ci impedisce di ripercorrere appieno, infatti, una ventura di cui la mia generazione ha fatto in tempo a vedere solo gli ultimi fuochi. Fra le eccezioni il Manfred di Schumann riproposto dalla Warner, i Canti Orfici di Campana in un imperdibile cofanetto Bompiani, e ora questa Lectura Dantis che da aficionado autentico (presente tra la folla, beato lui, quell'auratico giorno a Bologna) propone l'editore Luca Sossella (pp. 32 e cd audio di 46', € 20,00), accompagnandola con eleganza grafica (molto bella la foto del Genio, di Cristina Ghergo) e un'appassionata presentazione. La registrazione è la stessa d'un mitologico ellepì CGD a suo tempo sùbito sparito e per vent'anni piratato (pittoreschi bootleg rispetto ai quali il nuovo cd provvede altresì a precisare il nome di chi compose gli interludi musicali medievaleggianti: Salvatore Sciarrino).
Auratico giorno, si diceva, quel 31 luglio 1981. Lo stesso Bene (come si legge netlibro-intervista dì Giancarlo Dotto) individua, in quel «Dante "comunista"» voluto dal Sindaco Zangheri a un anno dalla strage alla Stazione, «uno dei più infernali casini del dopoguerra ma anche il più grande, irripetibile evento della mia vita». Le pagine relative, in Sono apparso alla Madonna fanno da contraltare mistico-sciamanico, scritto in dannunziano pastiche quattrocentesco, a una vicenda quanto mai farsesca e terrena. Arrivati a un mese dalla recita un alto papavero craxiano vieta la diretta televisiva, e un consigliere comunale democristiano si sgola: «È una pagliacciata!» Giunge alfine la sera fatale Il Vate salutato da un boato da stadio, si arrampica su una scaletta da pompiere, si installa in cima alla Torre degli Asinelli, si dispone dietro al leggio sovrilluminato a strapiombo sul mare di folla (centocinquantamila, giù, gli spettatori). Sofferente di vertigini, chiede a Lydia Mancinelli dì tenergli strette le caviglie tutto il tempo della lettura. E legge. («Apparvi. Li occhi mia chiusi al leggio luminescente, presi cantai li versi d'Allegheri [..] Li suoni rincorreansi sovra i tetti, e il silenzio divoto de le genti omai fatte incantamento mi suase al dolce vanire.») Mega-amplificate, le parole nuotano nell'aria come quelle d'un muezzin: Paolo e Francesca, Ulisse, Ugolino, Sordello, l'ora che volge il disio, i plenilu-ni sereni, due meno vulgati squarci paradisiaci (l'invettiva di San PietrQ th suoi successori nel canto )VII, I'atco in latino del canto VII...), due sonetti come bis (Guido, i' vorrei che tu, Lapo e io, Tanto gentile e tanto onesta pare...). Alla fine, una dedica da brivido: «Io mi scuso per il vento, che ha turbato questa dizione, questo canto; e, sebbene ringrazi gli astanti, ricordo un p0' a tutti che ho dedicato questa mia serata, da ferito a morte, non ai morti ma ai feriti dell'orrenda strage». Tutti gli si fanno attorno festanti, anche il consigliere democristiano; lui allo specchio, senza voltarsi: «Le do tre minuti per sparire di qui, dopo di che sarò costretto a gettarla giù dalla Torre». Occorrenza rara, e per ciò tanto più eloquente, di una passione civile - come si vede - mai corriva. Non conta infatti tanto la presenza - carnevalesca, rivendicativa - degli astanti, quanto quella menomata e «ferita» dei colpiti (i commossi, scrive in Sono apparso alla Madonna). Significativa la scansione . delle letture: che alterna la più topica e veemente tensione invettivale (formidabili i suoni aspri e chiocci della parlata di San Pietro, il sibilare sferzante delle rime in -aca, in -esse, in -eschi.), o l'exploit sonoro dei gorghi impennanti di Ulisse, coi momenti di stupefazione lirica, il «vanire» delle parole in. legato (nel Purgatorio di lavacri albali, nell'Osanna estatico di Par. VII, all'explicit «commosso» di Inf. V...). Nelle parole di Dante, tanto la ferita che il lenimento: il morso è iris, il balsamo I sonetti-bis, letti in un'atmosfera elettrica (la differenza di ambiente sonoro fa pensare che al live, nella prima parte, sia stata sostituita un'incisione in studio), vengono a sciogliere una tensione insostenibile.
Una volta per tutte, della sua ricerca vocale Bene mostra l'etimo fisiocentrico, gnosticamente patofanico (così Pierre Kiossowski alludendo ai soffi del Bafometto ma anche a quelli di Carmelo; «Gorgoglio di cloaca è l'orale», scrive lui nell'Autografia d'un ritratto in capo alle Opere Bompiani). Ricerca, insomma, specificamente buccale (la bocca punta del corpo, per Deleuze): si ascolti il madornale staccato col quale è pronunciata la parola «bocca», appunto, all'inizio di Ugolino. È un uso minore di Dante quello che ne evidenzia le deficienze, i balbettamenti, le improvvise esplosioni (sempre nell'Autografia riconduce la sua ricerca, Bene, alla «non mai abbastanza studiata cura dei difetti»). Nel 1978 notava Deleuze, nel fiammeggiante Un manifesto di meno (ristampato un paio d'anni fa da Quodlibet nel bellissimo volumetto Sovrapposizioni, che contiene anche testo e immagini del Riccardo III di Bene), l'insistenza beniana sulle protesi, le bende, le più o meno metaforiche amputazioni: segni appunto di «un. trattamento minore o di minorazione, per sprigionare dei divenire contro la Storia, delle vite contro la cultura, dei pensieri contro la dottrina, delle grazie o delle disgrazie contro il dogma».
Nello specifico dantesco, l'insistenza di Bene sulla fagicità più atroce, la continua ruminazione sillabica, lo snocciolarsi degli staccati fanno anche pensare all'ètimo (falso) di Comedia da comedere, «divorare» (vi allude anche Emilio Villa nella Letania per Carmelo Bene...). Torna alla mente, soprattutto, il Mandel'štam vertiginoso della Conversazione su Dante per il quale «il baricentro dell'attività discorsiva s'era spostato: verso le labbra, verso l'esterno della bocca. D'un tratto, la punta della lingua s'era trovata in una posizione di spicco». La Commedia mostra così «il carattere puerile della fonetica italiana, la sua stupenda infantilità, la sua vicinanza al cinguettio dei bambini, un certo suo congenito dadaismo». Il nome stesso di Beatrice, alla punta dí Par. VII, si polverizza nei suoi fonemi: «Ma quella reverenza che s'indonna I di tutto me, pur per Be e per ice, I mi richinava come l'uom ch'assonna» (proprio come di lì a poco farà Zanzotto del Nome di Maria Fresu, appunto la. più piccola. del 2 agosto 1980: «rutto-scoppiato e disseminato - / in milioni di / dimenticanze, di comi, bburp»).
Molto si potrebbe seguitare. Questo disco è una sonda, una macchina del tempo che d'improvviso, come per incantamento, ci riporta nel bel mezzo del Novecento di tutti gli ardimenti - e di tutti gli smagamenti. Quel Novecento per cui oggi non si fa che affettare stanchezza, ripudio, palinodia. Vediamo smoraleggiare con voluttà personaggi che, pure, non avrebbero granché di cui smagarsi. Di fronte a questo spettacolo vien voglia di ripetere le parole (della Comedia de Deus, già, di un altro che ci manca: Joo Monteiro) che Carmelo, da ultimo, amava citare: «Non siete voi che mi cacciate,sono io che vi condanno a rimanere».