Recensioni / Miljenko Jergovic. Sarajevo, una città come le altre

Miljenko Jergovic ènato a Sarajevo nel 1966 e da poco più di un anno vive a Zagabria. Lavora per il settimanale "Nedjeljna Dalmacija" di Spalato. Scrive articoli di rock, letteratura, politica e cinema, per diversi giornali bosniaci e croati. Ha pubblicato nel 1994 per la casa editrice Durieux di Nenad Popovic il libro di racconti Sarajevski Marl­boro (Le Marlboro di Sarajevo), tradotto in italiano da Ljljana Avirovic per le edizioni Quodlibet. A differenza di molti testi usciti in questo mesi, quello di Jergovic non è una testimonianza, reportage o diario. No, il libro di Jergovic è il libro di racconti di uno scrittore che è riuscito a narrate della guerra con, se possibile, un distacco e una freddezza sorprendenti, dando al lettore quello che sembra essere il vero sentimento di chi, quotidianamente, vive assediato e lotto le bombe. I personaggi protago­nists Belle stone di Jergovic (racconti brevi, brevissimi) "assecondano" la guerra nell'unico modo possibile - forse - per poterle sopravviere almeno tino a quando ono snujper non aggiustera la mira: facendone un elemento quotidiano come qualsiasi altro. Non per questo comunque. i racconti perdono la loro forza narrativa.
L'incontro con Miljenko è avvenuto in due momenti, lo scorso anno a Zagabria nel corso di un convegno e quest’ anno a Venezia per la presentazione di un libretto chiamato Rolling Writing Venice che l’As­sessore alla Gioventù Gianfranco Bettin ha pensato di allegare all’iniziativa "Rolling Venice" che permette ai giovani in visita a Venezia di usufruire di sconti vari. Insieme a scrittori come Paco Ignacio Taibo II, Diego Mainardi, Sandro Veronesi e Jacob Arioni, il libretto (pubblicato da Il Cardo) in cinque lingue, ospita anche il racconto Venezia-Jelec sempre di Jergovic.

Perché il titolo Le Marlboro di Sarajevo?
Posso dire che il titolo del libro comprende due livelli. Uno è reale, perché le Marlboro di Sarajevo esistono davvero da una ventina di anni. Si tratta delle Marlboro confezionate su licenza dalla Fabbrica tabacchi di Sarajevo e adeguate al gusto dei fumatori bosniaci. Dall’altro canto, ho voluto attribuire al titolo una carica ironica perché quando oggi parlano di Sarajevo usano parole come tragedia, disastro, sangue, parole che contengono un indubbio peso patetico. Ho tentato semplicemente di togliere dalla Sarajevo del titolo quell’alone patetico allo scopo di legare il termine a qualcosa che in linea di principio sia sereno, ottimi­stico ed allo stesso tempo cosmopolita perché le Marlboro appartengono semplicemente al pianeta intero e non soltanto a Sarajevo.

Quando è nato il libro, in quale periodo?
Il libro consiste in racconti e bozzetti scritti durante i 13 mesi di guerra trascorsi a Sarajevo e in materiale scritto a Zagabria.

Quali sono i sentimertti di uno che crea in una città assediata quali le sue emozioni ma anche i contatti con il mondo esterno?

È molto difficile parlarne perché un sentimento globale, generalizzato non esiste. L’assedio e i bombardamenti quotidiani amplificano, in effetti, quello che sotto forma di emozioni esiste­va prima. La tristezza è, di conseguenza, molto più intensa, altrettanto l’atteggiamento verso la morte, la felicità è più forte ride ad alta voce. La guerra e l'assedio hanno avuto il ruolo di amplificatore delle emozioni.

È opinione comune che in una città in guerra la vita sia  paralizzata, che tutto ruoti intorno alla guerra. È vero oppure no?
Certo che no. Uno può essere bloccato dalla guerra e dai continui bombardamenti per alcuni giorni, forse addirittura per un mese intero. Quando tutto ciò dura di più, alcuni anni, quando l’assedio si trasforma in una specie di situazione normale, o paranormale, allora tenti di creare una specie di imitazione della vita. Si sta tentando, cioè, di proiettare nella condizione attuale le emozioni della vita precedente, creando così una specie di istitu­zione intima racchiusa nella propria imitazione della vita.

Quali sono i temi dominanti del libro?
Le Marlboro di Sarajevo è un libro di racconti brevi. In esso ho tentato di parlare, in un modo lontano da qualsiasi pathos, di persone che non sono né combattenti né individui dai quali dipende il corso della storia. Si tratta semplicemente di persone la cui esistenza è stata condizionata dalla guerra e che stanno tentando di trasformare questo stato di cose in vita.
Force il lato positivo della guerra, se è lecito usare questo termine, il suo merito è quello di far conoscere lo spirito cosmopolita di Sarajevo. Con ogni probabilità, nessuno in Europa se ne è accorto, Sarajevo veniva trattata come qualsiasi altra  città.
Pensa che questo sia vero?
Solo parzialmente. Il mondo sa solo quello che vuole sapere di Sarajevo. La verità su Sarajevo non esiste, esiste però la proiezione della verità, fatta dai media. È un dato inconfutabile che Sarajevo sia una città multiculturale, cresciuta sulla osmosi tra le quattro principali religioni monoteistiche, fenomeno evi­dente anche oggi. Ciò è talmente normale da non rappresentare alcun miracolo per quanti sono dentro, per quanti vivono a Sarajevo. Penso che i mezzi di comunicazione abbiano costruito un miracolo, affamati come sono di eventi spettacolari. Per cui posso affermare che nonostante il sangue e la compassione che suscita in una parte dell’opinione pubblica mondiale, questa stessa opinione pubblica abbia colto negli ultimi due anni soltanto l’aspetto spettacolare della situazione in cui versa la città.

Sulla copertina del libro è raffigurato un sassofono, presumo dunque che le piaccia la musica. Ci può dire qualcosa sul suo rapporto con la musica?
Il sassofono sulla copertina è in effetti un possibile simbolo dell’identità della mia generazione. Sono nato nel 1966 e appar­tengo alla generazione cresciuta con il rock and roll, il cinema ed i fumetti. La nostra formazione estetica poggia, appunto, su questi tre fenomeni, oltre ai valori tradizionali. In effetti, il rook and roll ha un ruolo ben preciso in questi racconti, fa parte di un “‘ipotetica identità’”. Naturalmente, la città in cui sono nato e dove vivevo costituisce la parte principale di questa identità, fatta però anche da altri fenomeni che contribuiscono a completare il quadro globale.

Tra le altre cose, Sarajevo fu uno dei centri del rock in Jugoslavia. Lei ne è stato influenzato?
Certo. Tutta una generazione si formò attraverso quella che con qualche riserva potrebbe essere definita “visione rock del mondo”. Se a creare il fenomeno fossero stati i Bijelo Dugme o altri, non è poi tanto importante. Quello che voglio sottolineare è il fatto che non esiste nessuna differenza tra Sarajevo e altre città quando si trattava di accettare informazioni su avvenimenti legati alla musica, al cinema e alla moda. E quello che ho voluto dimostrare con il mio libro. Sarajevo non è un luogo lontano, isolato. Sarajevo è una città che esiste nello stesso modo di una Parigi, Roma, Amsterdam o Vienna, esiste come qualsiasi altra città europea.