Recensioni / Passato, presente e futuro dei centri storici

Perché, fino a un certo momento, si è dato per scontato che la città di pietra dovesse e potesse continuamente trasformarsi al pari della città dei cittadini e poi questo parallelismo si è azzoppato per la riconosciuta necessità di conservare la sua parte “storica”? È questo uno degli interrogativi di fondo cui prova a rispondere il denso saggio introduttivo di Davide Cutolo e Sergio Pace al volume a più mani, curato da questi stessi autori, La scoperta della città antica. Esperienza e conoscenza del centro storico nell’Europa del Novecento (Quodlibet, 2016). Gli scritti contenuti nel libro ripercorrono criticamente l’evoluzione del metodo di riconoscimento e delle sorti del centro storico nell’Europa delle città, con una varietà di casi studio approfonditi per lo più da giovani, tra gli eroi che oggi si dedicano alla ricerca in Italia, ancor più se umanistica1. Chiude il volume un capitolo su questioni per così dire istituzionali tra le quali quella dell’associazionismo culturale e operativo, col caso specifico di Italia Nostra (di Antonello Alici), e quella dell’attività sovranazionale dell’Unesco (di Carla Zito). Confortati da autorevoli riferimenti, Cutolo e Pace rilevano che è tempo a renderci sagaci; man mano che passa esso ci allunga lo sguardo; conosciamo molte cose non per merito nostro ma perché ci appoggiamo “alla ricca sapienza dei padri”. È così che abbiamo imparato a distinguere ciò che è storico da ciò che non lo è.

Negli ultimi decenni dell’ottocento, mentre le città europee si rinnovavano, la sensibilità tardo romantica evocava il passato come rifugio dal turbinio dell’invadente civiltà industriale. Così, dopo l’utopia retrospettiva di Ruskin, nel 1897 veniva istituita a Parigi la Commission Municipale du Vieux Paris, con lo scopo “di ricercare le vestigia della vecchia Parigi e di vegliare sulla sua conservazione”; poco più tardi, nel primo novecento il tedesco Paul Schultze-Naumburg, esponente di punta dell’Heimatschutz, giudicava la qualità dell’architettura mediante i binomi antinomici antico-buono e nuovo-cattivo.

Sul quesito iniziale va considerato come spartiacque il passaggio, dopo la prima metà del XX secolo, dalla considerazione filologica delle singole emergenze monumentali a quella del contesto ambientale e dei suoi valori corali, visti come testimonianza unitaria di cultura e di civiltà. Ma tutto il novecento appare combattuto tra conservazione e rinnovamento, con la frequente radicalizzazione in uno scontro manicheo in cui lo schieramento dall’una o dall’altra parte è spesso effetto di astratte generalizzazioni e, in definitiva, del pregiudizio ideologico. Per il periodo interbellico, merita un cenno l’ambiguità del funzionalismo. Qui gli autori ricordano il plan Voisin di Le Corbusier (1925) come caso esemplare del contrasto “tra i valori di un patrimonio urbano consolidato e le dinamiche di crescita di una grande metropoli”, lo stesso contrasto che fa da sfondo costante a quel vero e proprio manifesto della città razionalista che è il suo Urbanisme, anch’esso del 1925. A partire da questi anni la zonizzazione si afferma come metodo per la pianificazione semplificando la complessità urbana. Ma nei piani venivano identificati all’interno della città storica i complessi emergenti, operando così una classificazione e stabilendo implicite gerarchie. Camillo Sitte e a modo loro Jacob Burckhardt e Alois Riegl riconobbero che i monumenti eccezionali acquistano significato e valore in rapporto all’ambiente circostante. Gustavo Giovannoni (Vecchie città ed edilizia nuova) tentò la mediazione tra conservatori e innovatori col criterio del diradamento per consentire l’adeguamento degli spazi antichi alle esigenze di igiene e funzionalità della città moderna. Alla legittimata convivenza tra antico e nuovo il fascismo fece poi ricorso a piene mani per affermare la sua moderna potenza proprio nei contesti storici che testimoniavano la passata (e presente) grandezza della nazione.

Centri storici e ricostruzione

Le distruzioni della seconda guerra mondiale interruppero il dibattito e le sperimentazioni, ma poi costrinsero a scelte cruciali per la ricostruzione delle città come luoghi nodali della storia e della cultura europea. Gli autori mettono però in guardia dal riconoscere semplicisticamente nella guerra la separazione tra un prima e un dopo, tra contrapposizioni ideologiche e operative. La riorganizzazione di Londra e la sua connessione con le politiche territoriali di decentramento, che sfoceranno nel grande programma delle New towns, trova le sue radici in studi risalenti alla fine degli anni ’302. Anche molti interventi nelle città italiane già in atto durante la guerra proseguirono con coerenza dopo la sua conclusione.

Con la stessa prudenza va sfatato il mito della contrapposizione tra difensori della città esistente e di quella immaginata sia nei Congrès Internationaux d’Archietecture Moderne sia nel documento di approdo dei CIAM, la Carta di Atene. Semmai va riconosciuto che nei decenni della ricostruzione il confronto tra città storica e città da ricostruire diveniva inevitabile: i ruderi, i brani di città superstiti e la memoria facevano aleggiare i valori della tradizione, costringendo i progettisti e le amministrazioni pubbliche a fare i conti con la storia. Ma mentre le cittadinanze manifestavano il legame col passato con intenti nostalgici (la ricostruzione com’era e dov’era), architetti e urbanisti tendevano a considerare la distruzione bellica come occasione per la modernizzazione della città. Apparve così inevitabile il “carattere dialettico” della ricostruzione, che riportò “sui tavoli da disegno di tutt’Europa le planimetrie dei nuclei storici” anche quando, nonostante l’attenuante dell’urgenza, il ripristino di quinte e fondali mascherava spesso ristrutturazioni profonde e disinvolte. Con esempi e citazioni (Magonza, Saint-Malo, Le Havre) vengono ricordati tanto casi di più o meno fedele riproduzione dell’ambiente originario quanto di integrali rifacimenti.

Gli anni ’50 segnano l'avvio, in Italia, del dibattito serrato e vivace che si snoderà nei decenni successivi con le voci autorevoli di Cesare Brandi, Roberto Pane e Giulio Carlo Argan e la militanza culturale e professionale di Saverio Muratori, Ernesto Nathan Rogers, Aldo Rossi, Carlo Aymonino, Giovanni Astengo e Giancarlo De Carlo. Emerge il tema della correlazione tra ambiente fisico e società che lo abita, e sulla conseguente necessità di una salvaguardia che li tenga insieme. Le attività dell’INU, di Italia Nostra, dell’Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici e i vari convegni, molti dei quali si chiudono con documenti guida come la Carta di Venezia e la Carta di Gubbio, istituzionalizzano la questione del centro storico, visto come componente urbana non isolata, ma integrata o da integrare nel corpo vivo della città. Intanto la rilevanza del tema si era proiettata nella dimensione sovranazionale con le attività dell’Unesco (1945), del Consiglio d'Europa (1949) dell’Icomos (International Council on Monuments and Sites, 1965).

Antico e nuovo

La discussione sul rapporto tra antico e nuovo ha assunto dal secolo scorso un rilievo prima inconsueto. L’antico è storico, ma non tutto ciò che è storico è antico (Roberto Pane, 1967). Qui occorrerebbe uno spazio che non abbiamo per accennare alla tutela dell'architettura contemporanea di riconosciuto valore. Ci limitiamo allora a osservare che gli storici, ma non solo loro, riconoscono gli eventi contemporanei come fossero già storia; lo stesso accade o dovrebbe accadere per l’architettura o per alcune parti della città contemporanea3. Sulla definizione di centro storico architetti, storici dell'architettura e urbanisti riflettono da decenni senza certezze. La locuzione centro storico è divenuta una consuetudine lessicale, su uno sfondo vago e indefinito, cui Roberto Pane dichiarò la generale rassegnazione. Il dibattito scientifico, tra sottigliezze filologiche e interpretative, si è soffermato su due questioni principali: la prima riguarda cosa dovesse intendersi per centro. Centro urbano e centro storico, ciascuno con le diverse sfumature di significato nelle numerose culture nazionali europee, non sempre coincidono. Essi si sono anzi in molti casi differenziati, soprattutto nelle grandi città, col nascere dei centri direzionali e con l'evoluzione del concetto di centralità, non più legata alla geometria ma all’attrattività, alla concentrazione di servizi più o meno rari. La seconda vacua questione riguarda la scelta della datazione limite della storicità, ossia il termine temporale prima del quale c’è la storia e dopo il quale la contemporaneità. Il centro storico fu prima identificato con la città costruita fino all’ottocento, poi con quella del primo novecento, infine salomonicamente prevalse l'idea che il crinale andasse identificato con la fine della seconda guerra mondiale. Persino il governo cadde nella trappola della datazione con la circolare ministeriale sulla legge ponte che la fissava al 1860, quasi che l’anno di una mal riuscita Unità potesse rappresentare una cesura anche nei modi e negli stili del costruire4. Sul piano istituzionale, il decreto n. 1444/68, attuativo della legge ponte, ufficializzando un criterio già affermatosi nella prassi progettuale, prescriverà le modalità di lettura del territorio urbano e non urbano per zone omogenee5. Il canone metodologico instaurato dal criterio dell’omogeneità, cui presto si associò quello della conservazione integrale, ha impigrito la riflessione sul centro storico, ha normalizzato il pensiero e ha limitato la vitalità delle città italiane. In queste, infatti, l’evoluzione sociale ed economica è stata costretta entro spazi visti come immodificabili, anche per l’indolenza e il conveniente semplicismo della consuetudine amministrativa. Talvolta, sotto la spinta di forti interessi economici, questo dogma è stato contraddetto dalle trasformazioni degli usi più che degli spazi; talvolta si è risolto nella sua stessa negazione, col dilagare del degrado da abbandono.

Negli anni ’70 la corrente postrazionalista restituisce alle matrici storiche della città il ruolo che il razionalismo della prima ora aveva in un certo senso trascurato6. Poi la tanto invocata valorizzazione dei beni culturali come risorse economiche e la loro trasformazione in beni di consumo per il turismo culturale, più spesso semplicemente di massa, ha prodotto nelle città più frequentate usura, degrado e banalizzazione. Vanno però riconosciuti alcuni recenti interventi benefici, anche se puntuali, come i casi di riqualificazione con destinazioni legate all’università e alla cultura, su emergenze monumentali abbandonate o degradate. Al punto che, all’inizio del terzo millennio, dopo aver riacquistato la centralità che merita, “il patrimonio urbano consolidato corre il rischio di indebolirsi sotto il peso di funzioni, attività, aspettative assai ingenti” che restituisce alle categorie della tutela e della valorizzazione una connotazione etica.

Con questo auspicio si conclude la nostra sintesi di un’accurata storia del pensiero e delle metodologie di intervento sui centri storici contenuta nel libro. Ma forse perché condotta da storici dell’architettura e dell’urbanistica, benché historia magistra vitae, gli autori non si pronunciano sulle prospettive future; su come, cioè, sulla scorta delle trascorse vicissitudini, si possa o si debba correggere il tiro per affrontare le sempre maggiori difficoltà nelle quali il patrimonio ereditato dal passato è costretto da pressanti cambiamenti ambientali, sociali ed economici.

Il futuro

Il progressivo affermarsi di una pianificazione sempre più formale e burocratica ha consolidato una concezione vincolistica aprioristica – si perdoni l'assonanza – del centro storico. La prescrizione di una generica tutela è implicita nell'atto stesso di perimetrare la “Zona A” del piano urbanistico; serve a tenere le carte in regola, ma resta spesso fine a se stessa. Come accade tutte le volte in cui manca un progetto vero, una visione concreta per mettere in moto il centro storico con un ruolo vitale e innovativo nell'intera città e al suo esterno. È causa non secondaria di questa impotenza la divaricazione delle competenze che vuole il patrimonio culturale come appannaggio esclusivo dello Stato (si pensi allo stanco e spesso arbitrario formalismo delle autorizzazioni) e la pianificazione urbanistica riservata all'ente locale; una separatezza ostile alla definizione di progetti unitari in un contesto di riconoscibile responsabilità.

Le norme di attuazione assegnate ai centri storici secondo la corrente pratica urbanistica spesso sono quasi preconfezionate: le destinazioni d’uso ammesse, le modalità attuative e le tipologie di intervento costituiscono il vestito per un corpo sconosciuto. È questo il risultato di un dogmatismo metodologico che ha prodotto una prassi stanca; queste normative restano in vigore per anni, senza riuscire ad evitare il degrado o a valorizzare edifici in disuso o male utilizzati. Le vere innovazioni, come riconoscono Cutolo e Pace, avvengono per punti, quando si riesce a utilizzare un complesso abbandonato, quando si realizzano attrattori come poli di irraggiamento in grado di innescare la rivitalizzazione di parti più ampie del tessuto. In prospettiva, il buon senso dovrebbe allontanarci dalle faziosità ideologiche: è impossibile teorizzare criteri di intervento; ogni caso è una storia a sé, per il processo formativo, per i suoi caratteri morfo-funzionali, per lo stato di conservazione, per le vocazioni. Analogamente non è possibile considerare l'intera città storica come un blocco omogeneo tanto nel passato quanto nel futuro. Non tutti i centri hanno avuto la stessa sorte: i loro cittadini li hanno rispettati o maltrattati, alcune parti non hanno più nulla di autentico o il degrado le ha sopraffatte perché già prive di oggettivo interesse. Nulla di strano, in questi casi, che si lasci sprigionare la forza vitale della città; troppo poca è l'architettura contemporanea che si fa nel nostro paese ma, soprattutto, non è giusto che essa si esprima, in termini residuali, dove l’accostamento tra antico e nuovo perde la sua efficacia provocatoria, cioè nelle periferie. Se poi dalla straordinarietà dei nuovi interventi passiamo all’ordinarietà della manutenzione, l’esperienza ci rivela due nemici tra loro alleati: le leggi della natura, che mettono a nudo la fragilità del territorio italiano, e l'insipienza di cittadini e amministrazioni, che tardano ancora ad assumere comportamenti responsabili. Un passo avanti, ad esempio, sarebbe quello di farla finita con la tolleranza degli interventi impropri e abusivi. Un altro sarebbe quello di avviare finalmente un’opera generalizzata di messa in sicurezza e di adeguamento tecnologico. Qualcosa su questo fronte si sta muovendo; attendiamo con ansia le sorti del piano Casa Italia, ma un progetto di ampio respiro trova due ostacoli insormontabili: la politica miope non sceglie obiettivi di lungo periodo perché non ne raccoglie i meriti; la pletorica e forsennata burocrazia resta il leviatano d’Italia, visto che la corruzione alimenta sempre più la reciproca diffidenza tra cittadini e pubblica amministrazione in una spirale senza fine.

La città antica può essere anche contemporanea se strade, piazze ed edifici vengono adeguati agli standard di sicurezza e tecnologici, ma questo richiede una cura previdente del nostro patrimonio, dai piccoli borghi alle realtà maggiori. Più che il “centro”, è storico il continuo sovrapporsi della città a se stessa tra conservazione e trasformazione. Si può enfatizzare ora l’una ora l’altra ma, a prescindere dalle categorie, è necessario puntare responsabilmente sulla qualità urbana.

Note

1 La seconda parte, Casi particolari, problemi generali, procede in ordine cronologico con i casi del piano di Reims di G. Burdett Ford, 1920 (Gemma Belli), delle vicende di Como negli anni ’30 (Lucia Tenconi), del barri gòtic di Barcellona (Josep-Maria Garcia-Fuentes), della ricostruzione di Francoforte (Andrea Maglio), della Urbino di Giancarlo De Carlo (Marco Di Nallo), di Torino (Giacomo Leone Beccaria) e Bologna (Filippo De Pieri, Paolo Scrivano) tra gli anni ’60 e ’70, delle Halles di Parigi (Daniele Campobenedetto, Giovanni Comoglio), di quello contraddittorio del “nuovo centro storico” del piccolo borgo di Monte Carasso nel Canton Ticino (Alberto Bologna) fino a quelli del quartiere Chiado di Lisbona di Álvaro Siza Vieira (Erica Valentina Morello) e della Berlino degli anni ’80 (Davide Cutolo). Nell’ultimo capitolo il caso peculiare del centro storico UNESCO di Napoli (Fabio Mangone).

2 Nel 1937 la Commissione Uthwatt studiò la questione fiscale dei “contributi di miglioria” dovuti dai beneficiari dei miglioramenti urbani e la Royal Commission on the Distribution of the Industrial Population, presieduta da Sir A. Montague-Barlow, studiò le cause dei grandi addensamenti demografici durante la crescita industriale.

3 Cfr. sull’argomento Il contemporaneo nell'idea di tutela, in U. Carughi: Maledetti vincoli. La tutela dell'architettura contemporanea, Allemandi, Torino, 2012.

4 La circolare parlava di “strutture urbane in cui la maggioranza degli isolati contengono edifici costruiti in epoca anteriore al 1860, anche in assenza di monumenti o edifici di particolare valore artistico, ovvero strutture urbane racchiuse da antiche mura in tutto o in parte conservate, ovvero ancora strutture urbane realizzate anche dopo il 1860, che nel loro complesso costituiscano documenti di un costume edilizio altamente qualificato”.

5 La “Zona A” viene definita come la parte del territorio interessata “da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”.

6 Sulla questione gli autori citano la Città analoga di Aldo Rossi, riferendosi al potere immaginifico delle stratificazioni urbane e alla Strada novissima della Biennale di Architettura del 1980 quale manifesto poetico di una generazione di architetti.