Recensioni / La società post-borghese nella griglia dell’utopia

Superstudio è il nome con cui, nel 1966, un gruppo di giovani neolaureati fiorentini – Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Gian Piero Frassinelli, Roberto e Alessandro Magris e Alessandro Poli – si riunì per dar vita a una delle neoavanguardie più influenti sulla scena architettonica dell’epoca. «Un soggetto superiore e anonimo (...) in grado di trasformare la cifra personale da imperscrutabile fonte d’ispirazione a strategia operativa condivisa», in cui le singole passioni per pittura, fotografia, sviluppo tecnologico, persino antropologia e filosofia, contribuiscono a dar vita a un nuovo metodo operativo, volto a un definitivo rinnovamento della disciplina del progetto.

Da Archizoom a Zziggurat
Una vicenda che trova le proprie radici nel panorama dell’architettura «radicale», termine con cui Germano Celant individuò già negli anni sessanta la volontà di rifondazione espressa non solo da Superstudio, ma anche dagli Archizoom di Andrea Branzi, dal gruppo Strum, da UFO, Gianni Pettena, Ugo La Pietra, 9999, Zziggurat. E che ci viene raccontata in Superstudio Opere 1966-1978 (a cura di Gabriele Mastrigli, pp. CXXN-668, € 80,00), libro che fungeva da catalogo della recente mostra al MAXXI e che raccoglie per intero l’opera e gli scritti del gruppo. Lo stesso Mastrigli, sempre per Quodlibet, aveva anche curato un agile volumetto che raccoglie le testimonianze di tre dei membri originari: Natalini, Toraldo di Francia e Frassinelli.
La vicenda ha inizio ufficiale con l’inaugurazione, iI4 dicembre 1966, di una mostra pistoiese intitolata Superarchitettura, a cui Natalini e compagni partecipano con un assemblaggio di oggetti, a loro volta ottenuti dall’accostamento di legno e cartone, di forme e colori, che si spingono a disegnare ambienti dalle plurime – e a volte incerte – possibilità di utilizzo. Lampade, divani, suppellettili autoprodotti ma pensati per essere realizzati in serie, tuttavia comunque connotati da un’allure che Mastrigli descrive come ispirata «a una certa idea di bricolage, una sorta di disincantata (…) ars combinatoria capace di mettere insieme materiali e forme senza indugiare più di tanto sugli uni o sulle altre». Perché – si legge nel manifesto della mostra – ciò che conta è l’immagine: «i miti della società prendono forma nelle immagini che la società produce. I nuovi oggetti sono insieme cose e immagini delle cose». Il riferimento culturale alla nascente pop art americana è evidente, ma Superstudio lo declina, in chiave italica, in funzione della storia del nostro Paese. «L’immaginario italiano – ricorda Natalini – era fatto di paesaggio e arte: a Roma rifacevamo Michelangelo, Leonardo e non la Campbell Soup. La differenza tra la pop art americana e quella italiana era la stessa che c’è tra imparare da Las Vegas e imparare da Roma».
Alla rigida impostazione modernista basata sul puro soddisfacimento funzionale di un bisogno, inoltre, Superstudio contrappone la convinzione che nella società post-borghese, in cui si elidono i confini tra reale necessità e induzione al consumo di massa, sia necessario tendere alla costante ricerca di un impossibile equilibrio tra progettisti, committenti e fruitori.

Superficie quadrettata
Ricerca di equilibrio che si esprime attraverso l’adozione di un sistema grafico indifferente al soggetto, attraverso cui immaginare tanto gli oggetti di design quanto la città del futuro, disegnata come rete di megastrutture (in parte debitrice della futuristica visione di Archigram): una griglia modulare, in forma di quella superficie bianca e quadrettata, che è divenuta inconfondibile cifra di Superstudio e che si rintraccia in alcuni dei più noti progetti del gruppo. E che si estende non solo sulle facce di suppellettili pensate per «entrare nelle case addormentate della borghesia fiorentina e italiana come dei cavalli di Troia per portare all’interno dell’universo tradizionalista una nuova figurazione» (Toraldo di Francia) ma anche lungo la straordinaria serie di collage fotografici, serigrafie e litografie prodotti per raccontare il nuovo ambiente costruito. Dagli Istogrammi d’architettura con riferimento a un reticolo trasponibile in aree o scale diverse per l’edificazione di una natura serena e immobile in cui riconoscersi (1969), alle scenografie per i cinque Atti Fondamentali (Vita, Educazione, Cerimonia, Amore e Morte) in cui il lungometraggio diviene mezzo – il più adatto a comunicare i fondamentali temi del movimento, del nomadismo, della libertà dell’uomo contemporaneo – per presentarsi alla mostra del MoMA di New York, nel 1972, intitolata Italy. The new domestic landscape, curata da Emilio Ambasz e ancor’oggi apice nella parabola della fortuna critica del design italiano nel mondo. Passando attraverso il Monumento Continuo (1970), perfetta metafora del metodo dell’utopia negativa, che consisteva nell’elaborare un modello razionale per portarlo fino alle sue estreme conseguenze e dimostrane l’intrinseca inesattezza. In questo caso, un’architettura che abbracciava l0intero pianeta trasformandosi in oggetto e, dunque, in qualcosa che non è più architettura.
A questo primo riconoscimento newyorkese seguiranno, l’anno successivo, un’esposizione monografica itinerante – Superstudio Fragmente aus einem persiinalischen Museum – e Sottsass e Superstudio Mindscapes (al Walker Art Center di Minneapolis), che tuttavia segneranno l’inizio del declino di Superstudio, trascinatosi fino alla metà degli anni ottanta. E ben simboleggiato dall’installazione di La moglie di Lot per la Biennale di Venezia (1978): cinque architetture-scultura alla scala del modello, realizzate in sale e lasciate a sciogliersi lentamente.