Recensioni / Il sogno della forma. Un’idea tedesca nel Novecento di Gottfried Benn

Il titolo del volume trarrà il lettore in inganno. In effetti lo studio di Amelia Valtolina non è solo un’indagine sul Novecento di Gottfried Benn, bensì un’analisi profonda e lucida di uno dei periodi più complessi dal punto di vista storico e culturale della Germania moderna. L’autrice, seguendo le diverse fasi delle polemiche incentrate sull’eterna contrapposizione tra arte come disciplina che coinvolge il versante esclusivamente estetico e arte come impegno politico, con particolare riferimento al periodo che va dall’Espressionismo alla fine degli anni Cinquanta, ricostruisce il controverso percorso artistico di Gottfried Benn con un duplice fine: sfatare da un lato i numerosi pregiudizi della critica, fondati soprattutto sulla breve adesione di Benn al nazionalsocialismo e sulle conseguenti letture parziali e distorte dell’opera del poeta; dall’altro, l’intento è quello di ‘ripulire’ da un accumulo di luoghi comuni la discussione sul problema del cosiddetto formalismo – nell’ottica banalizzante: manierismo, disimpegno, ritorno all’ordine e alla tradizione, tradimento della natura sperimentale e rivoluzionaria dell’avanguardia – di alcuni movimenti letterari e artistici di quest’epoca. Insomma, lo scopo è dimostrare attraverso l’analisi del pensiero benniano e di alcuni altri artisti a lui in qualche modo affini, che «forma e frattura tragica sono due aspetti ontologicamente interdipendenti, e che la forma è anzi all’origine della tragedia in seno all’essere […]» (p. 11).
Strutturato in cinque capitoli, il volume ripercorre in maniera cronologica, ma non banalmente biografica, le principali fasi dell’attività poetica, in senso ampio, di Gottfried Benn. Il periodo espressionista viene riletto nel primo capitolo, a partire da alcune riflessioni del giovane Benjamin sul rapporto tra rovina, frammento e tensione formale, che animano la sua indagine sul teatro barocco, e sono influenzate dalla drammatica lacerazione a fondamento dell’avanguardia espressionistica. Valtolina enuclea tre modalità di approccio alla poesia da parte del primo Benn, suddividendo così in tre paragrafi questo primo capitolo: spasmi (tra disgregazione e costruzioni plastiche, tra decostruzione e recupero di forme tradizionali), profanazioni (tematiche e formali in nome di Dioniso e di un nichilismo alcionio) e cedimenti (o crolli, di ogni conoscenza e teleologia). Si tratta di tre procedure dalle quali emerge in maniera chiara un principio di contraddizione che ispira il pensiero benniano e che si rivelerà una costante anche nelle fasi successive della sua evoluzione. Non solo un principio poetico, bensì un assunto antropologico costruitosi nel tempo attraverso letture eclettiche, un principio che rivela in tutta la sua drammaticità l’irriducibile commistione di forma e informe, la coesistenza tragica di forma e indistinto. Alla luce di una simile prospettiva l’autrice riconduce la prosa di questi anni, in particolare la raccolta di novelle Gehirne, non tanto a una volontà di dissoluzione (termine forse fin troppo abusato in relazione a questa fase della cultura tedesca) delle forme, quanto piuttosto a una metamorfosi, un trapasso in un’altra forma, «metamorfosi di prosa in poesia» (p. 63).
Nel secondo capitolo, dal titolo Questioni di aura, Valtolina introduce nel suo percorso di indagine il parallelo, per certi versi sorprendente e senza dubbio originale, tra le soluzioni poetiche benniane al problema sopra citato e la poetica di Oskar Schlemmer. La natura interdisciplinare del volume appare immediatamente evidente anche per la presenza di un cospicuo apparato iconografico a colori al centro del volume stesso. Il collante che tiene insieme le esperienze dei due artisti viene individuato dall’autrice nella netta contrapposizione alla Neue Sachlichkeit e in particolare al valore d’uso dell’arte, al decantato valore sociale di un’arte applicata, che questo movimento, così come il Bauhaus, rivendicava come principio fondante delle proprie poetiche. L’arte, per Benn e per Schlemmer, è invece legata al progetto di costruzione dell’assoluto. Il parallelo fra i due artisti si fonda non solo su una intuizione dell’autrice o su elementi che mettono in luce una affinità vaga, viene al contrario cementato attraverso l’individuazione di una fonte comune, cui Benn e Schlemmer hanno attinto nell’elaborare questo tipo di prospettiva estetica, ovvero il pensiero di Konrad Fiedler. All’estetica neusachlich, al ricorso alla forma come mero strumento per acquisire una presunta realtà oggettiva delle cose, Benn contrappone un radicale nichilismo regressivo che, tuttavia, si concreta in un gesto formale i cui principi costitutivi sono il montaggio – inteso qui come riconversione del principio dionisiaco nella scrittura in prosa che acquisisce così un andamento discontinuo, frammentato, compromesso – e il ductus statico fondato sul prospettivismo di matrice nietzscheana. La forma viene utilizzata, a differenza che nelle poetiche costruttivistiche, non come principio ordinatore ma come struttura critica. In tal senso, e anche in questo caso l’autrice chiude in modo definitivo una questione spesso affrontata in modo banale o ideologicamente distorto dalla critica, il nichilismo e la tensione regressiva benniana non sono da interpretare come sintomo premonitore dell’avvicinamento del poeta al nazionalsocialismo. Ben più calzante appare la lettura di questo approccio all’arte come «una epifania del disagio latente nella cultura di Weimar, un singolare momento di lucidità» (p. 107). D’altronde la ricerca di nuove forme espressive che siano capaci di liberarsi dagli stereotipi di un linguaggio ormai sclerotizzato, attraverso il ritorno a uno stadio originario in una sorta di ricerca geologica, un percorso a ritroso nelle epoche stratificate della psiche, è uno dei caratteri fondanti della poetica di altri autori coevi – un esempio su tutti Robert Musil – che nulla avranno a che fare col regime nazista.
«[…] ma la mobilitazione dell’idea di ‘forma’ contro un tempo, una civiltà e una repubblica al tramonto non costituiva di per sé un argomento esclusivo della retorica antidemocratica, e neppure, più semplicemente, una reazione pseudofascista dinanzi al timore che l’informe collettivo bolscevico prendesse il sopravvento. Ciò che vi si esprimeva era semmai […] la crisi di uno stato incapace di consolidare la propria forma repubblicana» (p. 131). Indagata in questa prospettiva, la controversa, breve fase di adesione al nazionalsocialismo di Gottfried Benn viene conseguentemente interpretata come un vero e proprio tradimento delle premesse della sua riflessione sulla forma, lì dove la vulgata tende a vedere in questa fase il coerente compimento di un percorso che nutriva già nelle sue premesse il germe di tale svolta (il concetto è ribadito anche nel capitolo successivo, che affronta questo segmento della produzione benniana analizzandola appunto come la più radicale delle smentite di quanto fino a quel momento elaborato dal poeta, cfr. in particolare p. 180). Un tradimento avvenuto in virtù di una confusione tra discorso estetico, etico e politico. È questo il nucleo forte del terzo capitolo, il più lungo del volume, dal titolo Riti di passaggio, in cui Valtolina sottopone a un vaglio serratissimo la complessa questione dei rapporti di Benn con la Rivoluzione conservatrice e l’altrettanto intricato tema del superamento dell’‘eredità’ nietzscheana. È in questo periodo che l’esperimento dell’oratorio Das Unaufhörliche, in collaborazione con il compositore Paul Hindemith, per entrambi l’occasione di consolidare convinzioni estetiche giunte a maturazione in anni precedenti, si traduce in uno sconfinamento del pensiero estetico verso una dottrina dell’essere pregna di inquietanti implicazioni politiche. Sarà buon profeta Hindemith nel prevedere in tempi brevi, un paio di mesi come scrive alla moglie, la delusione di Benn rispetto al suo iniziale entusiasmo per il regime, sfociato nel tentativo di conciliare il proprio credo estetico con i concetti dell’ideologia totalitaria. Già nel saggio Mondo dorico (ma perfino nell’‘abietta’ Züchtung), come mostra in modo chiaro l’autrice, tornano ad accumularsi aspetti contraddittori e Benn recupera quella radicale affermazione di assoluta autonomia delle «Artistik» fondata su un concetto della forma «latino ma, insieme, non meno espressivo ed espressionista» (p. 194).
Nella tenebra è il titolo con cui Valtolina affronta nel quarto capitolo il periodo della emigrazione interna di Benn. Anche in queste pagine l’indagine si dipana seguendo le vicende artistiche della triade Schlemmer-Hindemith-Benn. Grazie all’acquisizione e all’analisi di materiali inediti o trascurati dalla critica – una lettera di Benn inviata in risposta a Schlemmer nell’ottobre del 1933, alcuni testi di Hindemith riguardanti la sua opera Mathis der Maler – l’autrice sottolinea ancora come a fondamento delle riflessioni estetiche da parte dei tre artisti continui a operare una tensione alla compiutezza formale, anche nelle opere più sperimentali, mai priva della coscienza tragica insita in tale tensione; un atteggiamento che, così come nel caso di Benn, anche per Schlemmer e Hindemith ha sovente portato a giudizi affrettati e pregiudiziali da parte della critica, anche di quella migliore (esemplare il caso del commento di Giulio C. Argan agli scritti sul teatro di Schlemmer, giustamente contestato da Valtolina alle pp. 216-218). L’estetica del frammento e il recupero della dimensione dionisiaca si riaffermano nella produzione benniana fino agli anni Cinquanta, si tratti di prose – Weinhaus Wolf – di testi saggistici – Pallas – o della lirica dominata dalla virtù statica della forma. Negli anni in cui Benn teorizza la prosa assoluta ricorrendo alla celebre immagine dell’arancia, elemento in cui convivono chiusura, perfezione plastica e tensione dissolutrice, il fenotipo che anima il frammento romanzesco Roman des Phänotyp si costituisce in evidente, palese, programmatica contrapposizione alla tipologia antropologica propagandata dalle teorie – estetiche, biologiche e politiche – del nazismo.
Sorprendenti le conclusioni, designate dal titolo Postludio: la statica dionisiaca di Benn mostra chiarissime affinità e convergenze con le teorie sulla forma di Adorno – «insieme dei rapporti di tensione e del tentativo di scioglierli», come si legge nella «Ästhetische Theorie» citata dall’autrice (p. 261). O ancora, in termini più generali relativi alla funzione dell’arte, in Minima moralia si può leggere: «Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine» (citato a p. 269). Anche in questo caso non si tratta di vaghe corrispondenze, il discorso critico di Valtolina rintraccia elementi comuni su questioni fondanti dell’estetica del ventesimo secolo e ha il merito, in questa sezione, di gettare una luce diversa, tutt’altro che scontata, anche sulle teorie del filosofo della scuola di Francoforte.
In conclusione, oltre all’indubbio contributo offerto alla ricerca sul tema (come detto, non solo Benn), il volume in oggetto ha il pregio di essere scritto in uno stile elegante, piacevole: anche nei punti in cui la sintassi si fa più complessa e articolata, la scrittura non si appesantisce mai e la bella forma non è mai a servizio di uno sterile autocompiacimento, né serve solo a mascherare un vuoto di contenuti.