Due volumi raccontano piccole storie di vita quotidiana
Ordinarie e terribili
Miljienko Jergovič è nato a Sarajevo nel ‘66, Vladimir Arsenijevic a Pola nel ‘65. Il primo racconta Sarajevo e i suoi abitanti per brevi testi, leggibili anche autonomamente, che parte da piccole cose della vita quotidiana, da situazioni che regolarmente, implacabilmente, trovano il loro compimento e scioglimento nella guerra. Jergovič ha la virtù del prosatore: sa ricorrere ad aneddoti che sprigionano tensioni generali, collettive e politiche come morali, anche se la politica e la morale vengono da sé, vengono dalla Storia che costringe le storie incatenandole al suo assurdo.
La Sarajevo di Jergovič è in fondo una Spoon River dilaniata dalla guerra, anche perché piuttosto che di ferocia - anche quando sono feroci, oltre la Storia, le storie - e di persone che la subiscono che egli narra, con una fermezza venata di malinconia, di dolore.
Da persone a personaggi a persone. Si direbbe questo il tragitto di ogni vicenda. Per un breve tempo l'autore le porta alla ribalta di una letteratura che modera i toni ma sa delineare con esattezza i contorni e il contesto dei "piccoli" avvenimenti dei "piccoli" individui. Jergovič sembra aver 1'ansia di collocare, quasi classificare delle vite di cui la guerra precipita il senso o che la guerra spazza via. Prima che il loro ricordo svanisca, occorre che ne resti traccia e segno, che non siano passate inutilmente, nell'insensatezza del mondo.
Giovane scrittore, egli ritiene che la letteratura possa essere utile? Non ha ambizioni di filosofo, ma sembra dirci: come si fa non filosofare se si vuole resistere, all'interno di un massacro?
Esemplare, il racconto La tomba, quello che contiene la spiegazione del titolo: le sigarette a Sarajevo vengono impacchettate su carta qualsiasi, rovesciata dal lato bianco (quando ne ha) e può capitare di mostrare a un incredulo americano che, al suo interno, pacchetto di carta Manta riveli la scritta Marlboro. Si tratta bensì di una mistificazione seconda, che le Marlboro di Sarajevo venivano fatte dalla ditta Usa adattandole a una presunta idea del gusto locale e a partire dai tabacchi locali. Si confrontano i modi di seppellire i morti, nella ex Jugoslavia e negli Stati pur sempre Uniti. Le tombe sono cose concrete, come lo è un pacchetto di sigarette. Lo è anche la morte, ma non lo sono le domande e risposte sul suo significato e la sua ragione. La filosofia è empirica e minimale, ma obbligata. Come in La diagnosi. Come in La Lettera. Eccetera.
Il piccolo catalogo delle storie impone che si parli di Storia, e se ne estragga una piccola morale. Nel testo finale si dice: «A questo mondo, per come esso e fatto, c’è una regola di base, e si riduce a una valigia sempre pronta». Quest’ultimo testo si chiama La biblioteca, che è il luogo dove le idee e le storie si fissano in libri, e diventano consultabili, trasferibili. Ma anche questo vale e non vale. «Impossibile schedare o ricordare le biblioteche private di Sarajevo distrutte dal fuoco. E neanche ci sarebbe qualcuno per cui farlo. Ma come la fiamma di tutte le fiamme è il fuoco di tutti i fuochi, la mitica cenere e la polvere finali sono memori della sorte del glorioso Municipio, la biblioteca universitaria di Sarajevo, del rogo di quei volumi lungo un giorno più una notte». Sono le ultime righe della raccolta, il messaggio rivolto a noi lettori da luoghi di pace. «Tutto questo accadeva dopo un sibilo e un boato, esattamente un anno fa. Forse proprio nello stesso giorno in cui tu leggi queste righe. Accarezza dolcemente i tuoi libri, straniero. E ricorda che sono polvere».
Il messaggio dovrebbe tornare utile anche a quei tanti giovani e meno giovani scrittori italiani persi dentro un’idea di letteratura narcisistico-letteraria, in particolare i tanti scritti “fighetti” certo non toccati da alcuna tragedia o da alcuna preoccupazione maggiore.
Le Marlboro di Sarajevo è un buon esordio. Il narratore non rinuncia alla visione dal1'alto che è del narratore riassume, delinea, giudica. Il secondo autore che abbiamo citato, Vladimir Arsenjevič coetaneo di Jergovič scrive da una città "in pace” Belgrado. I1 suo Sottocoperta ha vinto un premio importante nel '94 “battendo” autori di fama come il vecchio Djilas o come Milorad Pavič. È un caso letterario? Si, ma proprio perché in una letteratura che noi conosciamo malissimo e che dobbiamo vergognosamente solo alla guerra di poter conoscere, ci sembra introdurre una soggettività simile e diversa da quella dei migliori autori occidentali della stessa età.
In Sottocoperta molte cose fanno pensare ad autori occidentali. Lo sfondo culturale, la sensibilità e i gusti generazionali sembrano esser simili e anzi identici ma quel che cambia è l'acuità del contesto, di cui un giovane pur "lontano dal fronte" come Arsenijevič sembra avvertire il peso con una esasperazione di tutti i sensi che invece uno vicino come Jergovič sembra voler controllare e distanziare.
Arsenijevič ha vissuto a Londra, prima di tornare a Belgrado, e sembra conoscere molto bene la cultura musicale, figurativa e letteraria anglo-statunitense, insomma occidentale.
Il suo protagonista è se stesso o uno che molto gli somiglia, uno che propone un suo diario degli ultimi tre mesi del 1991; (l'Anno Terribile, come lo definisce nella sua bella prefazione Paolo Rumic, cui dobbiamo la scoperta italiana di Arsenijevič ) con una partecipazione immediata, una soggettività che non si nega. Il miracolo di questo piccolo e bellissimo libretto, lirico e angoscioso, è quello di offrirci "in diretta" lo sfogo, letterariamente, anzi poeticamente maturo, di un giovane del nostro tempo di fronte all'orrore del nostro tempo. In una «città distrutta dal di dentro (...) una vita (...) rabbiosamente si rigenera» di fronte all'esperienza del Male che è la Storia e che va oltre la Storia. «II male - (è ancora Rumic che parla - non è solo maledizione senza fine come nel film Prima della pioggia» (estetizzante, iperletterario e falso, aggiungo io), «ma un elemento necessario all'esistenza del bene, in un mondo in cui alla fine si scopre che non c’è punizione né premio e dove tutto è permesso.
Il protagonista s’aggira per la città mentre non lontano di lì già a Dubrovnik e a Vukovar tuonano i cannoni della guerra; ha una vita precaria, una moglie incinta, Angela, divoratrice di erbe e droghe, genitori simpaticamente di ieri, vicini a volte indigesti, su un territorio di normalità insidiata. Ha due amici, Lazar, onnivoro frequentatore di filosofie orientali e mode giovanilistiche, fratello minore di Angela, che decide di partire soldato; e Dejan, cantante di una band, cultore di miti occidentali, anzi statunitensi, inventore di magliette e di altri modi di arrangiarsi proprie della sua generazione, cui viene amputata la mano e che la guerra ha già segnato, che è indeciso tra il disertare e il restare.
Più che Angela, cui si riservano tenerezze arruffate e solidarietà di coppia, e di questi due amici che entrambi trovano, nei tre mesi del "diario" la morte, il primo in guerra, il secondo per suicidio, che l’autore parla, ed è a loro che mescola il suo vagabondare, e al loro bisogno di capire e alla loro disperazione dell'aver capito che unisce la propria ricerca senza sbocco, anche se non è così bizzarro e così disperato come loro. La morale è anche qui semplice: «Voglio dire che le cose erano schifose, ma non al punto da non poter diventare anche peggio. E davvero, sotto di noi si spalancava l’abisso».
Poemetto narrativo di una intensità commovente, Sottocoperta evoca una gioventù votata al peggio e che cerca "sottocoperta" uno spazio transitorio, un impossibile rifugio, una dilazione e un rinvio. Dolore, sbalordimento, inebetimento, nostalgia, rabbia, incomprensione, impossibilità rivolta e un bisogno terribile di tenerezza che trova sfogo solo tra coetanei, "Grotteske Kid" dentro un mondo impazzito.
I tre capitoli di questa lancinante e sospesa vicenda rievocante il momento in cui tutto precipita, sono seguiti da un elenco di morti e di fuggiti di allora, nel cerchio di amici e non amici dell’autore della stessa generazione. E da una intervista con 1'autore che non sembra avere soluzione di continuità con il resto, tanto Arsenijevič è persona intera e lucida, ancora in grado di dichiararsi un "ottimista confuso", nonostante tutto, nonostante le «serie ragioni per cui si può e si deve credere che la fase seguente possa essere più tremenda».
Miljienko Jergovič , «Le Marlboro di Sarajevo», trad. di Ljiljana Avirovič , Quodlibet, pagg. 137. L. 16.000.
Vladimir Arsenijevič, «Sottocoperta», trad. di Alice Parmeggiani, Comedit 2000, pagg. 110, L. 20.000.
«Poiché le edizioni Comedit 2000 sono poco distribuite, diamo qui il loro indirizzo: via delle Leghe 5, Milano. La pubblicazione di Sottocoperta è stata promossa dall'Associazione Est-Ovest, un’associazione di giornalisti che si occupa in particolare di ex-Jugoslavia e che ha sede in via Adige 11, 20135 Milano.