Recensioni / Masbedo, immagini da maneggiare con cura

Secondo la Teoria del restauro di Cesare Brandi la materia è indispensabile “all’epifania dell’immagine”, vale a dire alla sua stessa manifestazione. Su questo enunciato, che affranca la componente materiale dell’opera da ogni condizione di scissione e subalternità rispetto all’idea, egli fonda tutto il suo discorso sul restauro, ancora oggi un faro illuminante per generazioni di restauratori che lavorano su quelle opere (antiche e moderne) che contengono in nuce, ontologicamente e strutturalmente, il concetto stesso di restauro. Nel contemporaneo, tuttavia, dove la processualità, il divenire, la precarietà sono componenti intrinseche all’operare artistico, la ricerca su questi temi avviene su terreni aperti e, a dirla tutta, ancora molto scivolosi. Soprattutto occorre notare la pressoché totale assenza degli artisti nell’ambito di un dibattito, che coinvolge per lo più conservatori e restauratori, sul destino dell’opera, sulla sua capacità di attraversare il tempo, di sopravvivere al suo autore, dunque di trasformarsi e farsi portatrice di altrettante mutevoli epifanie di senso. Ecco perché operazioni come Handle With Care, progetto dei Masbedo, curato da Paola Nicolin nell’ambito di The Classroom, e realizzato con il supporto del Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale e promosso anche dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, rappresentano un importante e raro contributo artistico alla lettura degli aspetti semiotici della conservazione.

L’installazione articolata sui sei schermi – esposta nell’ottobre del 2016 all’Opificio di Firenze, nel gennaio 2017 negli spazi delle Scuderie Juvarriane della Venaria e che avrà sede nel prossimo autunno al Museo Civico di Castelbuono – riporta al livello della pubblica fruizione uno spazio privato e normalmente accessibile solo agli addetti ai lavori. Spazio fisico ma anche dimensione interiore all'interno della quale gli artisti hanno elaborato una riflessione approfondita su quello che Jacques Rancière definirebbe il “destino delle immagini”. Lo testimonia anche il titolo del libro – Diario Psichico. Analisi di una mostra d’arte contemporanea (Quodlibet 2016) – che raccoglie una serie di appunti, riflessioni, scambi di e-mail in fase di preparazione del progetto, fra gli stessi Masbedo e Paola Nicolin. La ricerca dei due artisti non poteva non partire da qui, da questi luoghi/templi laici in cui si celebrano quotidianamente i rituali e le liturgie del restauro e, prima ancora, della ricerca sulla conservazione. È infatti qui che l’opera perde la sua aura sacra e si disvela nella laicità delle sue componenti fisiche: quadri e sculture vengono scandagliati, messi a nudo da dispositivi di scansione ottica, sottoposti all’attenta disamina del restauratore nonché ad interventi conservativi di rigore clinico e precisione chirurgica.

Al video, una delle espressioni più immateriali ed effimere della nostra epoca, è affidato il compito di indagare questi processi di mediazione tra mondo della materia e mondo dello spirito, di descrivere le pratiche di restauro come un meccanismo operante all’interno di un altro meccanismo più grande, quello dell’uomo nel suo tentativo di fermare il tempo. E tutto questo senza mai indulgere nell’ossessione feticistica nei confronti dell’oggetto, fatto che di per sé odorerebbe già di morte, ma piuttosto insistendo sul processo rigenerativo della materia che avviene sì sul tavolo operatorio del restauratore, ma che coinvolge e interessa tutti, osservatore compreso in quanto essere dotato di corpo.

Diviene legittimo a questo punto il paragone visivo con una delle opere iconiche della storia dell’arte, La lezione di anatomia del dottor Tulp. La differenza tra il celebre quadro di Rembrandt e altri analoghi dipinti di genere risiede proprio nel sentimento di compassione, nel senso etimologico della cum-passio, che accomuna i soggetti della rappresentazione e l’osservatore, di fronte al cadavere che sta per essere dissezionato; compassione che nasce, appunto, dalla comune consapevolezza dell’essere parti del medesimo ciclo vitale. Il calore diffuso che investe la scena nel quadro di Rembrandt è la metafora di questo sentimento di compassionevole umanità che, come nel lavoro dei Masbedo, si percepisce al di là dell’apparente freddezza clinica dell’ambientazione. Così, nello spazio intimo del laboratorio di restauro, superfici pittoriche e brani scultorei mostrano, con le loro ferite esposte, talvolta sia in senso sia iconografico che metaforico, la sconcertante verità del tempo come generatore continuo di vita e di morte, di un processo da cui probabilmente neanche l’arte, con le sue brame d’eternità, resta immune. Ferite ricucite, superfici ripulite, lacune ripristinate: tutto è affidato alle amorevoli cure del restauratore, ai cui gesti e sguardi è dedicato un intero video dei sei che compongono l’installazione.

Tutto questo si traduce in un’opera che, memore della grande lezione del cinema d’avanguardia, si configura come ingranaggio totale in cui ogni elemento ha una funzione nel tutto ed è funzione del tutto. E, riferendosi alla cinematografia sperimentale, non si può non chiamare in causa Dziga Vertov, per quanto riguarda la gestione della partitura ritmica su cui si fonda l’orchestrazione di immagini e suoni all’interno dell’installazione. Così come nell’Uomo con la macchina da presa (1929), monumento del cinema costruttivista sovietico, Vertov si diverte di tanto in tanto a bloccare il flusso delle immagini, e dunque porre i soggetti del film sul medesimo piano del racconto spazio-temporale, così l’installazione subisce a un certo momento una frattura epistemica interna alla narrazione. È il momento in cui gli schermi si riallineano su un’immagine e un suono comune: una stampante che riproduce una scansione ottica ad alta risoluzione, allusione diretta a un processo di serialità delle immagini che, nell’epoca della “riproducibilità tecnica”, procede indipendentemente dalle sue caratteristiche di unicità e autenticità. È un arresto necessario poiché, come sottolinea Giuliana Bruno (Atlante delle emozioni, Johan & Levi 2015) proprio in riferimento alle dinamiche di montaggio vertoviane, “ha in sé il potere di liberare il movimento”. “Il cinema” – continua la Bruno – vince la morte dell’immagine “fissa”. E, proprio come avviene nell’elaborazione del lutto, la vita prosegue”.

In tale prospettiva, il mestiere del videoartista e quello del restauratore rivelano inaspettati punti di tangenza: entrambi agiscono sull’immagine secondo dinamiche di postproduzione e processi di pensiero che rendono l’opera d’arte testimonianza “viva” di senso che si sviluppa e muta nel tempo. Handle with Care è perciò, da ultimo, un esperimento di scrittura, un lavoro videografico per una Storia dell’Arte alternativa: quella in cui il tempo entra nel racconto dell’opera e diviene parte di un’analisi metodologica che pone sullo stesso piano generazione e rigenerazione, immagine e processo.