Dietro le quinte un comico ebreo si schiarisce la gola, poi si concentra per un interminabile minuto. Si apre il sipario, va in scena e, in prima fila, distingue le divise degli ufficiali nazisti. Sulle altre poltroncine sono sedute persone che, di lì a qualche giorno, diventeranno prima dei numeri e poi dei corpi da mandare alle camere a gas. EttyHillesum, all’epoca prigioniera a Westerbork, accusava di collaborazionismo questi comici, definendoli giullari dei comandanti, e si rifiutò sempre di assistere a quegli spettacoli chiedendosi quanto fossero legittimi. Antonella Ottai, storica del teatro, ha raccolto le storie di questi comici che si sono esibiti nei campi nazisti in Ridere rende liberi (Quodlibet), che presenterà oggi alle 16.30 alla Fondazione Valenzi al Maschio Angioino insieme con LuciaValenzi, Antonia Lezza e Giulio Baffi; Bruno Maccallini leggerà brani del libro e reciterà sketch e canzoni.
Professoressa Ottai, quei comici vanno condannati?
«Non me la sento, nell’ambito della tragedia che fu il nazismo non si possono giudicare le azioni delle vittime, soprattutto quando cercavano solo di salvarsi».
Chi erano questi comici?
«Kurt Gerron, che in “L’angelo azzurro” fa il proprietario del locale, Max Ehrlich, Paul Morgan. Comici di successo, grandi caratteristi del cinema tedesco. Una volta internati, la loro fama viene sfruttata dalle SS per spettacoli di intrattenimento. Devono far ridere i loro carnefici».
Dove si sono esibiti?
«Prima nei campi di transito, poi anche nei campi di sterminio».
Che significa fare resistenza con la comicità e con la musica?
«In luoghi in cui si cercava di disumanizzare ogni individuo, far ridere rivendicava l’esistenza di qualità naturali e razionali dell'uomo».
Far ridere diventa quasi un contrappasso.
«È chiaro che più un comico mantiene la scena, meno probabilità ha di essere deportato. Le barzellette servono a salvare la vita. Ma poi finiranno tutti nelle camere a gas».
Nessuno di loro è stato tentato di infilare negli spettacoli messaggi contro il nazismo?
«L’attore Kurt Gerron a Theresienstadt, quando recita i versi di una filastrocca di Leo Strauss ispirata a una giostra, conclude: “questo è un viaggio molto strano, è un andare senza fine, e se pure il cerchio non ha uscite, l’esperienza è sterminata”. E poi ci fu anche il teatro comico clandestino».
Di che genere?
«Vero e proprio cabaret, a Buchenwald e Dachau, in cui si prendeva in giro il personale del campo con monologhi umoristici e politici. Chi lo faceva e chi vi assisteva ovviamente rischiava la morte».