Recensioni / Le verità prime gridate al mondo

«I cani del Sinai», la Shoah, la riflessione sull’ebraismo dopo Auschwitz e il rapporto con Israele hanno costituito l’ineludibile scenario di una critica della modernità sul dominio dell’uomo sull’uomo

Franco Fortini scrisse il suo testo autobiograficamente più arrischiato, I cani del Sinai, nel luglio del ’67, dopo la Guerra dei Sei Giorni che vide disfatto l’esercito di Nasser e invece trionfare i carri con la stella di re Davide guidati da Moshe Dayan. Sono ventisette brevi capitoli in prosa suggellati, alla maniera di un memento, dalla frase incisa nel crematorio di Birkenau e a firma di Zelman Lewental: «Se tu non vuoi più credere alla verità, nessuno vorrà più credere a te». Lo stato di Israele aveva meno di vent’anni e usciva dalla sua terza guerra, mentre Fortini, cinquantenne nato come Franco Lattes, era figlio di un ebreo fiorentino, un modesto legale vicino ai Rosselli e Salvemini, e si era battezzato valdese dopo la promulgazione delle cosiddette leggi razziali.

La sua lunga e complessa evoluzione intellettuale, dove interagivano e si integravano le Scritture e i portati di una asperrima sapienza mondana (in ispecie la tradizione marxista), dove anche collidevano l’istanza della poesia (quasi fosse una sua radice dissepolta, segno di elezione e di tragico privilegio) e il costante richiamo alle res durae di un mondo segnato in perpetuo dalla lotta di classe, tutto ciò lo portava a uno sguardo in cui presente e passato, autobiografia e storia, potevano richiamarsi a specchio e tuttavia nei modi di una vicendevole allegoria. In altri termini, parlare di sé nei Cani del Sinai equivaleva a interrogare, con una parzialità del tutto consapevole, i destini generali, ma nello stesso tempo scrutare il nero oroscopo di questi (come una cesura, uno sfregio agli automatismi e agli alibi della memoria) per lui voleva dire spogliarsi di un riflesso ambiguamente stereotipo e denudare una realtà tanto più flagrante quanto più mistificata nel senso comune e nel consenso della pubblica opinione. E dunque: il disprezzo per gli arabi, l’esaltazione della superiorità militare israeliana, l’orgoglio di riconoscere nel vincitore i segni della civiltà occidentale e anzi della civiltà tout court. (È tutto quanto mezzo secolo dopo, oggi, il sussiego liberale ascrive all’onore di Israele quale «unica democrazia del Medio Oriente» e avamposto del mondo libero tacendo si tratti di uno stato etnocentrico e ormai totalmente militarizzato che mantiene da decenni in condizione di cattività, perciò di segregazione e di sistematica persecuzione, il popolo dei palestinesi).
Davanti a Fortini, mentre scrive emozionato e a muscoli tesi, sta la coppia diametrale dell’ebreo umiliato e del milite di Tsahal, l’esercito israeliano. Piangere l’uno ed esaltare l’altro, o viceversa, è perdere in essenza la più elementare verità, al presente tabuizzata e innominabile, perché ciò che li oppone fino a renderli entrambi fantasmatici, mitologici, è la violenza della lotta di classe, tanto più lacerante e pervasiva quanto più capace di continua mediazione e di trasfigurazione.

FORTINI DISTINGUE, criticamente, le nozioni di ebreo e di israeliano, di Stato di Israele e di classi dominanti/dirigenti di Israele. E intanto chiede a sé stesso che cos’è, nel Novecento, un «ebreo» e che cosa significhi la sua vicenda di entità umiliata, ferita, annientata. Così risponde: «Evocare i macelli nazisti equivale a chiederne una chiave, una interpretazione. Questo senso era: di avere riassunto, nella posizione di vittime e in una incredibile concentrazione di tempo e ferocia, tutte le forme di dominio e violenza dell’uomo sull’uomo proprie dell’età moderna; di aver riprodotto ad uso di una sola generazione umana quel che diluito nel tempo, nello spazio, nella abitudine, nella insensibilità, le classi subalterne europee e le popolazioni colonizzate avevano subito come diniego di esistenza e storia, come alienazione reificazione annichilimento».

VENT’ANNI DOPO, Zygmunt Bauman dirà in sostanza la stessa cosa in Modernità e Olocausto: Auschwitz non è affatto ineffabile, non è il «male assoluto» di cui dicono certi cripto-antisemiti e però laudatori sfacciati, imperturbabili, delle destre razziste al governo in Israele, Auschwitz non è una eccezione ma l’estremità mostruosa di una regola, la stessa che governa le nostre società industriali e neocapitalistiche. Quanto ai soldati di Dayan e al nazionalismo in armi benedetto, allora come ora, da tutte le cancellerie occidentali, Fortini ne è sgomento e, pur non citandole espressamente, mentre scrive I cani del Sinai (ora disponibile da Quodlibet e in traduzione inglese di A. Toscano e introduzione di L. Lenzini da Seagull Books con Dvd del film «Fortini/Cani» di Straub/Huillet) forse ha in mente le parole di Isaac Deutscher che in una celebre conferenza del ’54, L’ebreo non ebreo, affermava che un’ulteriore tragedia degli ebrei «è il fatto che il mondo li abbia costretti a cercare la sicurezza di uno stato nazionale proprio nel mezzo di un secolo come quello attuale, quando cioè il concetto di stato nazionale sta pian piano imputridendo». Sono verità tuttora non riconosciute ma che i cinquant’anni successivi hanno purtroppo conclamate, entro e fuori di Israele. E sono verità che Franco Fortini non ha mai smesso di ribadire e talora di gridare, perché il tempo le ha come levigate e intanto rovinosamente ingigantite. Peraltro, in esergo a I cani del Sinai una avvertenza chiariva il significato del titolo dedotto da una locuzione dialettale dei nomadi del deserto, per cui «fare il cane del Sinai» vuol dire sia essere nobilmente ipocriti sia stare dalla parte dei padroni o dei vincitori, perché nel Sinai non ci sono cani.
Nello stupendo lungometraggio di Daniele Huillet e Jean-Marie Straub, Fortini/Cani (1976), il poeta legge le sue pagine di dieci anni avanti con un ritmo scandito e persino implacabile, egli è seduto in un patio inondato di sole, la natura intorno a lui fiorisce indifferente, comunque estranea alla violenza delle cose dette e ricordate. Fortini è ripreso costantemente di profilo, non alza mai gli occhi dal libretto sgualcito dove un filo di tenace fedeltà lo lega alle parole incise a futura memoria da Zelman Lewental, Sonderkommando, sulle pareti del crematorio di Auschwitz-Birkenau.