Recensioni / Cercando Conrad all’Estremo limite

Il romanzo scritto nel 1902 viene riproposto nella traduzione di Celati. Una vicenda che riafferma i temi dello scrittore fra dignità, sofferenza e gli obblighi inderogabili imposti dalla vita

Nell’Ottocento, e ancora a cavallo dei due secoli, il narratore non era ancora il creatore un po’ (o molto) isterico che ha iniziato a diventare poco dopo, che vuole restare intero nella sua creatura.
Padre apprensivo incapace di quel distacco che raddoppia, da solo, la forza del racconto. Distacco che era come un dare del “lei” al mondo di parole che si portano alla luce. E che si può trovare scrivendo senza credere alla rilevanza di ciò che si scrive. Joseph Conrad apparteneva a quel genere di scrittori, e abbastanza radicalmente da poter credere che, anche nascendo settant’anni dopo, le cose per lui non sarebbero molto cambiate. Scorrendo la vita di Conrad si scoprono curiosità, contrastanti con l’opera. Il fatto di essere diventato un classico in una lingua non sua, cosa tra le più risapute ma sempre da ribadire. Il tentativo di suicidio, a vent’anni, con un colpo di pistola che ha fallito il cuore. Che sia stato una specie di sprovveduto quasi per scelta, salvo ricorrere ai soldi dello zio quando era al limite. Che da signore si è fatto marinaio e poi di nuovo signore… Alcuni di questi aspetti contraddicono ampiamente quanto Conrad ha edificato col suo stile limpido e granitico. Non la sicurezza con cui si è appropriata una lingua straniera, in cui scorgiamo la stessa determinazione dei suoi protagonisti. Ma l’essere stato uno sventato, il ricorrere agli aiuti dello zio, questo non è per niente conradiano. Al tempo stesso sappiamo che chi rappresenta con tanta verità le doti dell’integrità e del rispetto della parola data, della laboriosità, della dignità e del coraggio, non le ha conosciute solo per sentito dire.
In All’estremo limite che Quodlibet ripropone nella traduzione di Gianni Celati, compaiono tutti i tratti distintivi della scrittura di Conrad. Il paesaggio comunica l’animo dei personaggi, nel modo più naturale e impercettibile. Ma l’animo dei personaggi è spesso immerso in una nebbia; è un groviglio. I comprimari annaspano e rispondono agli eventi a caso o vittime delle proprie passioni; i protagonisti, di solito, con una risoluzione decisa, scegliendo la cosa da fare che è sempre una, la più dignitosa, anche se poi le si dovrà restare fedeli aggirandosi per quelle nebbie. E così farà Charles Whalley, capitano che si avvia verso gli ultimi anni di comando, e che un rovescio di fortuna della figlia pone davanti alla maggiore difficoltà della sua vita. Ma anche questa volta la decisione è presa: vendere la barca appena comprata e investire il ricavato in un’impresa – un nuovo comando – che gli permetta di conservarlo intatto, per la figlia, vivendo nel frattempo degli utili di quel lavoro.
Il vero motore della vicenda diventa dunque la figlia andata a vivere in Australia e che lui non rivedrà mai più. Un vecchio amico gli racconta di un tale Massy, che da macchinista s’era fatto di colpo proprietario di una nave, per una vincita alla lotteria. Come macchinista era regolarmente scacciato dai comandanti, da proprietario comincia a far fuori un comandante dopo l’altro. Ma il vero ostacolo che Whalley incontrerà è «il segreto inconfessabile che si porta addosso», come è scritto nel risvolto, e qui è giusto fermarsi. Conrad che scrive La linea d’ombra, il romanzo del passaggio dalla giovinezza alla vita adulta, nel 1914, dedicandolo al figlio Borys diciassettenne, che sta per partire per il fronte, ha immaginato questa storia di un capitano all’ultimo comando nel 1902, a soli sei anni dal suo esordio di scrittore.
Le annotazioni dei Diari di Virginia Woolf valgono quanto o più delle tante biografie uscite sull’autore, per far luce sull’opera. Le riassume Hector Bianciotti in un articolo apparso su “Le Monde” vent’anni fa. Per esempio che i suoi personaggi sono più esposti alle forze del mare e della foresta, alle tempeste e ai naufragi, che all’influenza di altri esseri umani. E poi, con le parole dell’autrice: «Il demone che sorveglia il genio di Conrad è il demone della languidezza (...), di quella specie di inerzia che vediamo nella tranquillità di una tigre in gabbia»; «nemmeno se fosse valso a salvargli la vita si sarebbe piegato a scrivere male»; che si deve al fatto di usare una lingua non sua, l’adoperarla «con un tale rispetto, maneggiando le parole come oggetti preziosi presi in prestito». E infine: che «non dice mai la prima cosa che gli viene in mente, ma l’ultima, risultato di tutte le altre succedutesi nell’intervallo». Quest’ultimo aspetto ricorda un’affermazione dello stesso scrittore: l’inglese della pagina scritta era per lui il risultato dei due passaggi precedenti, del polacco e del francese. Pensava in polacco, ripensava in francese e scriveva in inglese.
Resterebbe da dire della traduzione di Gianni Celati, che rende All’estremo limite un libro doppio: con un orecchio cerchiamo di spiare, sotto la superficie calma della prosa di Conrad, i tratti dello scrittore italiano. Trovandoli per esempio nelle fanfaronate di Capitan Elliott, il vecchio compagno di Whalley, o in quelle del macchinista-proprietario Massy. Quel che è certo è che Gianni Celati non ha mai mancato un colpo, qualsiasi cosa iniziasse a scrivere e non ha mancato nemmeno questo.