Recensioni / Il paradiso vive in un giardino

Una mostra a Parigi e una serie di saggi sul ruolo delle piante nella nostra vita e nel nostro immaginario

Finalmente è arrivato il momento delle piante. Dopo un paio di decenni dedicati alla liberazione degli animi, ora tocca al mondo vegetale. Sono le piante che hanno fabbricato l’atmosfera entro cui viviamo e che costituiscono ancora l’elemento base della nostra esistenza. Donano la vita alla Terra, ne determinano i colori e definiscono la forma stessa del mondo. Senza gli alberi e i fiori, senza gli arbusti e i manti erbosi, senza le foglie e i rami, il mondo sarebbe infinitamente più povero, probabilmente solo una landa desolata ricoperta di rocce aride e riarse. Il paesaggio stesso, la forma della superficie del Pianeta, lo spazio che miriamo estasiati – boschi, prati, terreni coltivati –, non si presenterebbe nel modo per noi consueto, sarebbe vuoto e insignificante.
Entrando nella mostra allestita al Grand Palais di Parigi, “Jardins” (fino al 24 luglio ), non si può non pensare quanto le piante costituiscano un elemento decisivo della vostra vita, come siano una di quelle realtà che guardiamo senza davvero vederla. Nelle sale del museo, è impossibile non accorgersi delle piante, dal momento che i tre curatori dell’esposizione (L. Le Bon, M. Jeanson e C. Zellal), ce le mettono sotto gli occhi attraverso quadri, oggetti e libri, dall’erbario di Rousseau agli innaffiatoi usati da accorti giardinieri, dagli acquerelli naturalistici di Dürer alle fotografie barocche di Karl Blossfeldt.
“Jardins” è un’esposizione luminosa e insieme delicata, raffinata e popolare, intelligente e curiosa. Nelle stanze del Grand Palais le piante celebrano il loro trionfo, diventando un oggetto culturale prima ancora che naturale, mostrando la loro forma multiforme. Come scrive in un libro recente, La vie des plantes (Rivages), il filosofo Emanuele Coccia, le piante sono l’ornamento cosmico, l’accidente inessenziale e colorato, che domina ai margini del campo cognitivo. Le piante ci hanno preceduti, hanno aperto la strada agli altri organismi viventi. Tuttavia è come se non le vedessimo, se non sotto forma di alberi e fiori, e per lo più durante la bella stagione, poiché la gran parte dell’umanità vive oggi nelle grandi metropoli del Pianeta e le considera alla stregua di oggetti superflui della decorazione urbana: aiuole, giardinetti, parchi. Le riconosciamo solo quando si trovano dentro i rari spazi verdi o nei negozi dei fiorai, quando dobbiamo ornare la nostra casa, un balcone o il tavolo di un amico o un’amica.
Ora però le piante si stanno prendendo la loro rivincita, come dimostra il grande pubblico che attende paziente di entrare nella mostra parigina o si assiepa davanti ai piccoli quadri, alle fotografie, ai tableau dove sono descritte le geometrie dei grandi giardini reali. Nessuna “cosa”, nella rappresentazione che ne hanno dato artisti come Klee o Matisse, è mai stata così vista e riprodotta al pari delle piante. Eppure, come ricorda nel suo saggio Coccia, le piante sono un tema escluso dalla filosofia, dalla metafisica. Le varie forme assunte dalla vita sono davvero così straordinarie come mostrano erbe e fiori, cataloghi e raccolte. Un professore di biologia farmaceutica, Mauro Ballero, ha radunato in uno splendido volume, Le piante e la Bibbia ( Carlo Delfino Editore, pagg. 366, euro 39) le 136 specie vegetali citate nella Bibbia, dandone una descrizione scientifica e delle zone in cui si trovavano nell’antica Palestina.
Perché ora le piante ci interessano così tanto? All’origine di questa nuova attenzione c’è un personaggio inconsueto, Gilles Clément, paesaggista, giardiniere e botanico francese, che dagli anni Novanta ha pubblicato una serie di libri molti dei quali tradotti in italiano da Quodlibet e Derive Approdi (Il giardino in movimento e Terzo paesaggio sono i più noti). Clément è presente nella mostra con un’emblematica fotografia, Mettre les piedes au giardin, che raffigura un paio di scarponi invasi dalle erbe e ricoperti di muschio, memoria di un quadro di Van Gogh dedicato alle scarpe contadine, intorno a cui Martin Heidegger ha imperniato un suo saggio. Il primo giardino, ricorda Clément in Breve storia del giardino (Quodlibet ), non è un fatto estetico, bensì alimentare; è un orto che nasce quando gli uomini abbandonano il nomadismo per stabilirsi in un punto del loro territorio. Il giardino è un recinto che protegge il bene prezioso costituito da verdura, frutta, fiori. È il Paradiso Terrestre: la parola greca che lo indica viene dal persiano pairidaeza, “recinto”, composta da pairi, “intorno” e daeza “bastione”. Il Paradiso è un Giardino e insieme una fortezza, un luogo di protezione. Così appare nelle fotografie, nei quadri, nelle stampe, nei disegni appesi alle pareti dell’esposizione.
Uscendo da queste stanze si incomincia a guardare le piante in un modo diverso. Non solo gli alberi carichi di verdi foglie in questo piovoso aprile parigino, o i cespugli che fanno da corona ai giardini della capitale francese, ma soprattutto le erbe che spuntano vicino ai marciapiedi, sui muri o lungo le rive della Senna. Sono le cosiddette “vagabonde” di cui Clément ha scritto in un libro, Elogio delle vagabonde (Derive Approdi), ovvero erbe, arbusti fiori che crescono negli spazi abbandonati dagli uomini, sui bordi delle strade, vicino ai muri, tra le pietre sconnesse dei monumenti. Il botanico francese le chiama “piante ruderali”, forse memore dell’incisioni di Piranesi. Nel suo libro sottolinea come la flora che nasce nelle discariche non sia molto diversa da quella che cresce sulle montagne.
Le piante dimostrano giorno dopo giorno una capacità di muoversi ben al di là della loro natura che le vuole immobili. Volano trasportate dal vento e dagli uccelli, trascinata dai commerci umani e dai mezzi meccanici. Nel 1980 un botanico svizzero, Ernesto Schick, si mise a studiare le erbe che nascevano tra i binari della stazione di Chiasso; censì 763 specie vegetali che racchiuse in un volume, Flora ferroviaria (Florette e Humboldt Books) con i propri disegni e le schede classificatorie. Il medesimo lavoro d’indagine l’ha compiuto di recente Marianna Merisi in Vagabonde (Topipittori), un libro dove passa in rassegna 60 specie insediate in uno spazio milanese abbandonato. Le piante non sono stanziali, ma nomadi. Somigliano moltissimo a noi umani, che inquieti attraversiamo mari e sorvoliamo continenti alla ricerca di un posto migliore dove vivere, di altri Paradisi, alla faccia di muri divisori e steccati, di segregazioni e di orti conclusi.

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