Quando la guerra è cominciata io la seguivo con molta intensità e molto interesse. Ad un certo punto 1'intensità di quelle immagini è diventata troppo forte e non ho più potuto seguirla. Mi sono detto: queste sono cose troppo grandi e troppo forti per me, ma tu puoi ancor sempre isolarti e condurre la tua vita. Mi sono svuotato in me stesso». Nasce così l'opera prima di uno scrittore outsider, che ha studiato da cuoco e ora lavora in un'agenzia turistica e che ha vinto il «Nin», premio letterario ancora prestigioso, sbaragliando mostri sacri come Djilas e Pavic. Vladimir Arsenijevic, nato a Pola nel 1965 dove il padre era un militare di carriera, vive a Belgrado dal '71. Chitarrista, trascorre un periodo a Londra, ed è di nuovo nella ex capitale all'inizio del conflitto.
«Sottocoperta è il posto dove avete il minor numero di possibilità; di salvarvi quando la nave affonda. Nello stesso tempo è il posto dove potete vivere più a lungo, perché passa abbastanza tempo prima che l'acqua vi arrivi». La spiegazione che l’autore fornisce del titolo sembra racchiudere anche il destino dei giovani personaggi di un libro fortemente autobiografico. La «generazione perduta» non si ritrova più sull'asfalto belgradese: è sparita sul fango pannonico, senza gambe e braccia si è ritrovata in qualche località termale, oppure è partita con un biglietto di sola andata per Amsterdam o New York. È diventata specialista di funerali. Il tutto senza un vero perché, nella casualità di percorsi individuali mai diventati scelta collettiva - meno la fraseologia ufficiale autorizza da tempo immemorabile solamente il «noi». La guerra, a Belgrado, è stata in questi anni sempre psicologicamente vicina e fisicamente lontana, raggiungibile solo in tv. Da Angela e dal suo compagno (l’io narrante), dai parenti e dal gruppo degli amici, l’evento bellico è vissuto come un fenomeno che non ha più nulla di storico - e potrebbe essere altrimenti per una generazione programmaticamente apolitica? Chi diserta - e in Serbia è tuttora una pratica di massa - si nasconde: non cerca né forza nè coraggio per costruire vie alternative, chi viene raggiunto dalla cartolina va al fronte con noncurante inconsapevolezza, chi rimane, come il protagonista, sopravvive nel dormiveglia e cerca un erede che gli faccia da «analgesico-placebo». Sottocoperta (trad. di Alice Parmeggiani, Ed. Comedit 2000, £. 20.000) , come alcuni film che in Italia si sono visti di sfuggita, come i racconti di Mihajlo Pantic e di David Albahari, angosciosamente trasmette l'atmosfera della «Nuova Belgrado» senza tempo, dove si impazzisce e ci si ammazza come in un acquario in cui gli abitanti hanno perso il rapporto causa-effetto.
Miljenko Jergovic, invece, nato nel 1966 a Sarajevo, era un giornalista già noto prima e stimato per le sue poesie, i suoi articoli su rock, fumetti e cinema. In «Sogno americano» una poesia della raccolta Himmel comando, Jergovic desidera un enorme camion: «nell’odore della benzina/vorrei sentire il rock’n’roll del bollente luglio americano/senza partigiani sgozzati/senza comunismi quotidiani/senza le mutande piene di merda del patriottismo balcanico/senza la sua genialità nazionalista».
Anche Le Marlboro di Sarajevo (trad. di Ljiljana Avirovic, Quodlibet, £. 18.000), apparse l’anno scorso a Zagabria dove ora l’autore vive, sono storie dai ritmi diversi, la cui colonna sonora potrebbe essere uno struggente blues. Per i morti che non torneranno, per la Bosnia che non sarà mai più, per il cactus che assomigliava al suo padrone che rischia la vita per salire dallo scantinato ad annaffiarlo, e poi lo trova lì, stremato. Sono storie ispirate dalla guerra, dai suoi grandi terrori e dai piccoli dettagli che le tragedie rendono indelebili. Non sono però pagine di testimonianza. Certo, si colgono le sfumature del dibattito politico fra serbicroati-musulmani, le diverse fasi dell'assedio di Sarajevo, l'amore trasformato in odio nei confronti dell'aiuto occidentale, mentre ciò che conta per i protagonisti di questi brevi schizzi sono i dettagli, da cui a Sarajevo, anche oggi, dipendono vita e morte. Jergovic paragona le fiamme della Biblioteca ai capelli «selvaggi e dissoluti» di Farrah Fawcett, la distruzione di un’osteria jazz gli ricorda la morte di Billie Holliday: in questo modo le particolarità degli usi e costumi bosniaci, solamente accennati, si confondono con i segni di un codice oggi universale.
Merima Trbojevic, nata a Sarajevo nel 1958, lavorava al quotidiano Oslobodjenje ma, madre di un bimbo piccolissimo, lascia la città poco dopo l’inizio dell'assedio. Sarajevo oltre lo specchio (trad. di Dorotea Giorgi, Sensibili alle foglie, £. 10.000) è il racconto del viaggio interiore che l'ha portata prima a Belgrado poi a Trieste. Ogni tappa un nome di donna, ogni incontro femminile uno scambio vitale che permette ai due di non rimanere numeri senza casa né identità. Per un certo periodo l'autrice ha lavorato al Centro donna-Salute mentale della Usl 1 di Trieste dove si è accorta, con stupore, che curare le malate aveva un effetto terapeutico su lei stessa, fuggita dalla «follia» della guerra. Il libro, che riesce a comunicare molto della perde il proprio «io» e si ritrova «profugo», è anche un inno alle relazioni fra donne: una forza da cui Merima si è sentita salvata.