Recensioni / Germano Celant

Germano Celant veste sempre di nero. Non è un vezzo. O una divisa. È una seconda pelle che esalta piccoli dettagli ornamentali: anelli, bracciali, capelli, rigorosamente argentati. Odora d’America. Di vecchie Cadillac. Di canzoni dei Platters e di Rock, l’uomo che ha sbriciolato i nostri inni all’immediatezza e all’autenticità dell’artista. Gli dico hai reso ricca l’arte povera, come hai fatto? Mi guarda indifferente, incrociando le mani. Vedo spuntare dal dito indice un anello di giada. Mi aspetto che estragga un mazzo di carte. Lui tira fuori solo un jolly: «Ti racconto una storia che sbanda parecchio rispetto a come abbiamo sempre visto il mito e la bellezza». È una storia che ci porterà dove? Chiedo. «Tu ascoltala e fammi le domande giuste, anche perché se tornassi indietro rifarei esattamente le stesse cose. Certo, avrei potuto prendere altre strade. Ma negli anni Sessanta accadde qualcosa che ci spinse ad essere più funzione che sostanza. Buttandoci in un angolo sbiadito dell’esistenza. Cosa eravamo rispetto a qualche anno prima? Niente inconscio, niente etica, niente rimorsi. Eravamo soli davanti a un mare di opportunità artificiali».
Ma tu che facevi esattamente in quegli anni?
«Muovevo, con curiosità, i primi passi nel mondo dell’arte. Provengo da una famiglia modesta. Padre impiegato in una ditta di import-export; madre casalinga. Vivevamo a Genova. Cultura in casa pochina. Degli esiti drammatici della guerra percepivo quasi nulla. Il solo fatto eclatante che ricordi fu la ritirata dei tedeschi».
Quando ti rendi conto che quel mondo ti sta stretto?
«A sedici anni comincio a capire che Genova non è solo una città di mare, ma anche un luogo dove si fa cultura attraverso la musica. Non c’era cantina o carruggio in cui non si suonasse. Si stava formando un gruppo di cantautori le cui punte più interessanti erano Paoli, Bindi, Tenco. Avevo allora una ragazza, che poi diventerà la moglie di Arnaldo Bagnasco, che mi introdusse in quell’ambiente».
Non hai citato De André.
«Me lo ricordo a scuola. Frequentavamo lo stesso liceo. Lui alla sezione F io alla E. Sembrava già una spanna sopra agli altri. Con mio padre che rognava per certe mie predilezioni e il desiderio che mi iscrivessi a ingegneria».
Erano in contraddizione le due cose?
«Ma no, solo che a me di ingegneria non fregava punto. Genova suscitava altri interessi: il biliardo per esempio e una specie di cineforum degli studenti, voluto da Renzo Zorzi. Divenni segretario del primo festival di cinema latino-americano. Conobbi anche il regista Glauber Rocha, te lo ricordi Il dio nero e il diavolo biondo
Indimenticabilmente noioso. «Allora ci sembrava un capolavoro. Conobbi anche Padre Arpa, un gesuita che difese Fellini dalle critiche a La dolce vita. Mi ero anche iscritto a ingegneria, ma deludendo mio padre, ebbi voti terribili ai primi esami. In particolare in matematica. Il professore era il fratello di Togliatti. Un fanatico dei numeri. Un mistico dell’algebra: non ascoltava nessuno, solo se stesso. Non era il mio mondo».
Cosa fai? «Comincio a frequentare un giro di pittori. La sera, come dei catecumeni, ci riunivamo a leggere estasiati l’estetica di Galvano Della Volpe. Al secondo anno mollo ingegneria e mi iscrivo a lettere. Incontro Eugenio Battisti, l’antiaccademico per eccellenza».
Accennavi al tuo rapporto con il biliardo.
«Ero bravo nel gioco delle boccette. A Genova c’erano sale che contenevano fino a venti biliardi. Neanche fosse stata New York. La sera tardi arrivavano i campioni veri. Lì, su quei tappeti verdi che non avevano niente di ecologico, ho imparato le strategie fondamentali della vita».
Nel senso?
«Se ho capito qualcosa della vita lo devo al biliardo; a un ambiente fatto di astuzia, abilità, intelligenza. Geometria e invenzione. Sarei potuto diventare uno di quei “campioni” che si portano sempre il gilet di riserva e invece nel 1964 mi chiamò Zorzi, che lavorava per Comunità, e mi chiese di progettare un libro sul design dell’Olivetti.
Tu che ne sapevi?
«Un piede in quel mondo lo avevo messo. Battisti mi aveva invitato a scrivere sulla rivista Marcatrè. Avevo cominciato a fare la spola tra Milano e Torino. Fu così che conobbi Arturo Schwarz e Gian Enzo Sperone. Due straordinari galleristi, con una grande storia culturale alle spalle».
Di quali anni parli?
«Quelli importanti per me vanno dal 1966 al ‘69. A Torino conosco il nucleo di quello che sarà l’Arte Povera. Sempre a Torino grazie a Sperone assisto alla prima mostra di Andy Warhol. Arriva la Pop Art. Sono invitati Leo Castelli e Ileana Sonnabend».
E in questo caos di future stelle tu che fai?
«Capisco che il treno difficilmente passerà una seconda volta».
E ti inventi l’Arte Povera?
«Non invento niente. “Arte Povera” è un’espressione così ampia da non significare nulla. Non definisce un linguaggio pittorico, ma un’attitudine. La possibilità di usare tutto quello che hai in natura e nel mondo animale. Non c’è una definizione iconografica dell’Arte Povera».
C’è il rapporto con il teatro di Grotowski da cui mutuate il termine.
«Grotowski battezza, ma poi l’idea circola indipendentemente anche tra gli esponenti del Living Theatre. Ricordo che di teatro povero parlavano Julian Beck e Judith Malina. Vivevano a Genova non lontano da via Prè, dove c’era molta prostituzione, contrabbando e gioco con le tre tavolette».
Scuola di vita.
«Tu scherzi, ma il Living era affascinato da quello che vedeva nei vicoli. La scuola di vita era l’opportunità di mettere insieme più linguaggi».
Accennavi a Leo Castelli.
«Triestino di nascita, trapiantato a New York, Castelli era l’uomo che meglio conosceva la sensibilità europea. Gestiva una parte importante del mercato americano. Fu lui a portare Rauschenberg nel 1964 alla Biennale di Venezia».
Tu chi preferivi tra Rauschenberg e Warhol?
«Il confronto non si pone. Sono due strategie differenti. Certo, la simbologia di Rauschenberg è molto più forte di quella di Warhol, il quale è una specie di dropout. Il valore di Andy salì alle stelle più tardi. Anche perché non era ancora un simbolo come Rauschenberg, Jasper Johns, Merce Cunningham e John Cage che scopri il silenzio e il vuoto. Ma quello che non si sottolinea mai abbastanza è che in quegli anni si verificò una mutazione “geopolitica”».
Cosa intendi?
«Se prima del 1962-‘63 l’arte trovava il suo fulcro nell’Europa e, in particolare, a Parigi, dopo quella data, cioè dopo il passaggio dall’Espressionismo astratto alla Pop Art e al Minimal, l’America si scopri, da un punto di vista artistico, nazionalista. E allora o vivevi a New York o eri tagliato fuori da qualsiasi strategia».
Però gli artisti americani frequentavano ancora Parigi, Venezia, Roma.
«Sì, ma l’Europa, culla di ogni possibile cultura, tra il 1966 e 1967 cominciò a riconoscere l’importanza dell’America. Aveva ancora un potere di riconoscimento, ma aveva perso il controllo del mercato. Gli artisti che sbarcavano da noi indossavano una mentalità vincente. Per la mostra della Biennale i dipinti di Rauschenberg furono trasportati su un cacciatorpediniere americano. C’è niente di più patriottico e bellico al tempo stesso? Era immediatamente chiaro che l’arte stava diventando un grande mezzo di propaganda».
Scopri il valore dell’America e cosa fai?
«Mi do da fare. A Venezia, nell’ambito del padiglione americano, Ileana Sonnabend mi presentò Oldenburg che esponeva insieme a Dine e Rauschenberg. Furono anni fertili, fitti di relazioni e conoscenze. Nel 1969 andai per la prima volta a New York. Incontrai Lichtenstein e attraverso Ileana e Leo mi si aprirono una serie di studi prestigiosi».
Conosci anche Warhol?
«Non fu complicato, anche perché molti party all’epoca erano open. Ti potevi sedere sul divano accanto a Warhol e scrutare questa strana figura, con un enorme registratore tra le gambe, sollecitare le persone a parlarci sopra».
Che ti sembrava del Pop?
«Ero già “anti” per usare un’espressione cara a Battisti. Dopo anni di astrazioni, il Pop aggiornava il realismo. Non quello socialista, per carità. Ma un realismo leggero, ironico, tutto giocato sulla superficie delle cose».
Cambiò la prospettiva dell’arte?
«In maniera radicale. La nuova generazione di artisti non si interessò più a esaltare il dramma e la tragedia, il lutto e la perdita, voleva una “radiosa felicità”».
Che è la stessa su cui spinge la pubblicità.
«Non a caso fu una delle strade più prolifiche. Nacque allora l’epoca dei materiali sociali che compongono il fumetto, la fotografia, il cinema e appunto la pubblicità. Ad affascinare la nuova generazione fu il mondo delle cose, non quello delle anime».
Perché queste cose acquistarono un valore impensabile?
«Sarebbe un discorso lungo. La verità è che si passò da una situazione in cui la figura dell’artista era una specie di disadattato, ubriacone, marginale a una situazione in cui il mercato capì che è la ricchezza a qualificare la produzione e non viceversa».
I soldi creano il bello?
«In un certo senso è così. Questo fenomeno lo comprendi in tutta la sua evidenza con l’esaurimento dei movimenti artistici: le avanguardie, le neoavanguardie, i collettivi, le tendenze, lasciano il posto a nuove figure fortemente connotate a livello individuale. Ti potrei fare degli esempi: da Julian Schnabel e Jeff Koons arrivi a Damien Hirst. Sono i nuovi eroi dell’arte che gestiscono direttamente la loro produzione. Quando Hirst si inventa la sua asta da Sotheby’s si muove con questa precisa determinazione».
Ma questo perché dovrebbe fare impennare i prezzi?
«Partiamo da un fatto. C’è stata una crescita esponenziale del valore di certi artisti. Che so? Rothko o Kline sono cresciuti nel valore di mercato centinaia di migliaia di volte».
Ed è giustificato?
«Cosa vuol dire? Mica stiamo parlando della vendita del latteo del prosciutto. Essendo l’arte diventata sostanzialmente un feticcio, si lega facilmente ai desideri di una persona che è disposta o indotta a comprare un oggetto prescindendo dal suo valore effettivo».
Quindi uno compra il proprio desiderio.
«Sì, ma da solo il desiderio non basta. Anche nella moda o nell’acquisto di una marca di automobile il desiderio viene creato, poniamo dalla pubblicità. Nell’arte è accaduto qualcosa in più. Tu sai che da circa un secolo, da Duchamp in poi, c’è stato il tentativo di togliere all’arte l’aura, cioè quella sostanza sacra che rendeva l’oggetto artistico qualcosa di venerabile. Ma non è andata proprio così».
Cioè?
«Il feticcio dell’arte ha resistito a ogni laico assalto e ha trovato un alleato fortissimo nel feticcio economico. Le due cose se ci pensi bene coincidono».
Cosa intendi per feticcio?
«Non è tanto un simbolo quanto una forza che ti scappa da tutte le parti».
E tu come ci stai dentro a tutto questo?
«Per un verso sono un meccanismo che ha contribuito a consolidare questo tipo di realtà. Dall’altro ho cercato di contrastarlo, ma è difficile ribellarsi, anche se la ribellione è un’ombra che mi ha seguito fin dall’arte povera».
Non è un compromesso al ribasso quello che hai trovato? «Tutte le volte che provi a mettere in crisi il sistema, ne rinnovi il valore. Anche se dicessi che l’oggetto d’arte non esiste, continuerebbero a esistere le conseguenze. Sono queste che si impongono».
E oggi cosa mostrano le “conseguenze”?
«Come storico dell’arte, ammesso che la definizione abbia ancora un senso, non ho mai avuto la distanza dall’opera. E devo ammettere che mi è stato anche rimproverato. Ma sono contro il mito dell’oggettività. Di un’opera mi interessa non solo la leggibilità, ma anche ciò che non è leggibile».
Non puoi evitare la realtà, ma non iene fai condizionare?
«L’arte ha scoperto il sovranismo molto prima di certa politica. Ma non ci fai niente se non capisci dove quella sovranità si rende leggibile e quindi legittima. Un tempo erano alcuni luoghi a dare le carte: Parigi, Londra, Venezia, New York. Oggi può accadere ovunque. Sono i soldi che creano i luoghi e non viceversa».
È il cinismo bellezza!
«Tutti vogliono la “statuetta egizia”, il pezzo unico, toccare o possedere l’originale. È l’illusione di continuare a essere individui tra miliardi di persone. Il cinismo non è neanche realismo, ma un’assenza totale di compassione. Di empatia con le cose, con gli oggetti. I soldi hanno raschiato quel po’ di morale che ancora restava attaccata all’opera. Ricordo che da giovane invitai all’Università di Genova Umberto Eco a tenere una conferenza. Si presentò con un borsone pieno di fumetti. E ci estasiò con una bellissima lezione su Flash Gordon. Erano gli anni Sessanta. Gli demmo trentamila lire per il disturbo».
Morale?
«Me le ha sempre rinfacciate. Era un gioco tra noi, ovviamente. Ma la dice lunga sul significato dei soldi».