Recensioni / Alla ricerca dell’identità ebraica

Non è stato facile per Giancarlo Gaeta curare l’edizione italiana postuma del dialogo autobiografico di Imre Toth con lo scrittore ebreo ungherese Péter Várdy raccolto in tre diverse interviste tra il1987 e il 1999 e variamente rivisto dallo stesso Toth, impegnato in continue riscritture dei suoi testi, pubblicato a Budapest nel 2004, viene ora tradotto in italiano da Francesca E rvas, a partire da una versione francese inedita di Judith Dupont.
Si tratta di una delle migliori riflessioni sulla condizione ebraica. Toth aveva dedicato a questo aspetto decisivo della sua biografia e della storia del Novecento Essere ebreo dopo l’olocausto (Prefazione e cura di Bianca Maria d’Ippolito, Postilla di Romano Romani, Cadmo, Fiesole 2002, ora disponibile anche in versione digitale), a sua volta ricavato dal contributo al Convegno Internazionale Olocausto. La Shoàh tra interpretazione e memoria (Napoli, 5-9 maggio 1997). E alcuni flashes nell’intervista biografico-teorica a mia cura «Deus fons veritatis»: il soggetto e la sua libertà. Il fondamento ontico della verità matematica («Iride», 2004).
Fino ad allora, come scrisse nel 1982 in una lettera a Péter Várdy riportata nella Prefazione, Toth non aveva dato risposta all’interrogativo «qual è l’identità ebraica oggi»: «Per ragioni personali, questa domanda mi ha preoccupato molto e a lungo, proprio perché non trovavo alcuna risposta che avrebbe potuto soddisfarmi…
Questa risposta non ho potuto trovarla da nessuna altra parte, se non nella mia produzione». Si tratta di capire come questo libro risponda alla domanda esistenziale e storica, sul piano soggettivo – che cosa ha significato per Toth essere ebreo – e su quello oggettivo – che cosa significa «essere ebreo». Una prima risposta la fornisce Várdy: «Nella vita di Imre Toth l’ebraicità è il filo che collega l’individuale al generale, la sua esperienza personale con la storia della scienza»; «Nell’opera di Imre Toth è questo il cantus firmus. Egli non è stato uno studioso esclusivamente centrato sulla sua professione, ma un intellettuale che ha presentato in un rapporto sinottico unico i tesori della storia delle idee, le catastrofi della storia e i valori dell’uomo libero».
Ma che cosa ha a che fare con l’ebraismo la produzione scientifica di Toth, appartenente alla sua «seconda vita», lontana da quella «prima vita» che si concluse nell’esperienza terribile delle prigioni e dei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale.
Lo studioso di filosofia e di storia della matematica, docente prima all’Università di Bucarest, poi, dopo la sua fuga in Germania nel 1969, a Francoforte sul Meno, Bochum e Ratisbona, dove fu collega di papa Ratzinger, come si riconosce nell’ebreo comunista in fuga, che evase più volte dal carcere e più volte rischiò la vita, che si salvò per una strana coincidenza, il 6 giugno 1944 (giorno dello sbarco in Normandia), dalla deportazione ad Auschwitz, dove morirono 18863 ebrei della sua città, insieme ai suoi genitori, per rischiare poco dopo di morire schiacciato sotto un grosso blocco di cemento.
Toth è autore di opere importanti per gli antichisti e gli storici e filosofi della scienza, a partire dal saggio che lo rese celebre, Das Parallelenproblem im Corpus Aristotelicum (1967, parzialmente tradotto in italiano da Elisabetta Cattanei con prefazione e introduzione di Giovanni Reale per l’editore Vita e Pensiero nel 1997) integrato ed esteso in Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei Aristoteles (pubblicato postumo da De Gruyter nel 2010).
Qui Toth esamina diciotto frammenti aristotelici nei quali ritrova una riflessione geometrica non-euclidea già diffusa nell’Accademia di Platone. Seguiranno altre opere importanti, in parte legate all’assidua frequentazione dell’Istituto Italiano degli Studi Filosofici di Napoli e al sostegno di Gerardo Marotta con il quale Toth strinse un’amicizia profonda. Nel primo seminario napoletano del luglio 1993 – Sulla filosofia della matematica di Frege – Toth espresse una critica filosofica e politica dell’opera di Gottlob Frege che non deve aver giovato alla diffusione del suo pensiero in Italia (cfr. ora La filosofia della matematica di Frege. Una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica, a cura di Teodosio Orlando, Quodlibet, Macerata 2015). È nell’opera più singolare – No! Libertà e verità, creazione e negazione. Palinsesto di parole e immagini (1988), vastissimo collage di citazioni in positivo o in negativo sulla geometria non-euclidea – la chiave per rispondere. Come sottolinea Gaeta nella Postfazione, si tratta di «un atto rivoluzionario ricorrente con significativa frequenza nell`intellettualità ebraica del Novecento: «scardinare il continuum della storia», secondo la formula di Benjamin». No! esprime in forma anche artistica – Toth ha praticato con successo l’arte del collage – la cifra del pensiero “ebraico” di Toth: «la fonte dell`esistenza matematica è la libertà dello spirito, vale a dire l`atto della negazione».
Quella libertà coniugata sapientemente con la verità in La filosofia e il suo luogo nello spazio della spiritualità occidentale (2007), Liberté et vérité. Pensée mathématique et spéculation philosophique (2009), e Platon et l’irrationnel mathématique (postumo, 2011). Sul piano “oggettivo” la risposta è sintetizzata in una pagina del libro: «Gli ebrei sono una categoria unica nell’umanità, un hapax legomenon della storia, non ce ne sono altre»; «sono sussistiti per due millenni perché c’era bisogno di loro», «hanno assicurato l’unità dell’umanità, sono stati i mediatori tra i campi nemici, tra l’Islam e la cristianità, tra i Greci e i barbari, tra Roma e i barbari»; «il solo fossile vivente della storia europea, che allo stesso tempo progrediva sempre insieme alla propria epoca. Gli ebrei erano dunque sempre dei contemporanei [...]ma anche la sola comunità umana che ha conversato la propria identità, che è rimasta se stessa».
Imre Roth, ebreo ungherese di Satzm, divenuto Toth per salvare la pelle («Kati [...]Mi presentò a sua madre come Imre Toth, maresciallo, ferito al fronte. Di qui il mio nome»), lascia ai posteri la potenza del suo ricordo per ricostruire un mondo di uomini e relazioni, a partire da una piccola città della Transilvania, e per capire che cosa significa “essere ebreo”. Ma non dice tutto. Consegnerà a Januaria Piromallo (Il sacrificio di Éva Izsák, chiarelettere, Milano 2014) la storia di una giovane ebrea ungherese fatta suicidare nell’estate del 1944 da Imre Lakatos (alias Imre Lipsitz), filosofo della scienza e allievo di quello stesso Karl Popper che favorì la sua nomina all’Università di Ratisbona.