Bosnia, se la vita perde se stessa.
Nei racconti di un giovane scrittore bosniaco il dramma di un’esistenza quotidiana sconvolta dalle barriere insensate che trasformano il vicino di casa in un nemico
La guerra nella ex Jugoslavia è diventata un incubo collettivo per tutte le coscienze europee. Lo strazio che da anni ci trasmettono i servizi degli inviati, le immagini della gente in fuga sotto le bombe, le cronache delle più crude efferatezze, fanno ogni giorno più profonde le radici di un sentimento che è insieme raccapriccio, sdegno, indignazione e impotenza.
Ma la ripetizione anche di una tragedia di proporzioni così immani, porta con sé il rischio dell’assuefazione; anche all’orrore ci si abitua quando lo si conosce solo nella superficie delle inquadrature in campo lungo, nell’invitabile ripetersi delle formule giornalistiche. E come con la consueta lucidità nota Peter Bichsel, forse è proprio la tecnica di un’informazione capace di informare nell’istante preciso del fatto a farci apparire il mondo al contempo angosciosamente apocalittico e noiosamente insignificante. Ma non è così davanti ad un racconto.
Miljenko Jergovic è un giovane scrittore nato nel 1966 a Sarajevo, dove ha vissuto fino allo scorso anno. Corrispondente di guerra, collaboratore di varie testate bosniache e croate è autore di tre volumi di poesia, ha scritto ora un volumetto di racconti capaci di catapultare me, come credo ogni lettore, nella realtà della guerra civile con una forza inaudita e lacerante, di molto superiore a quella dei pur scioccanti reportage che ogni sera si possono vedere in televisione. Perché la guerra civile abbatte ogni barriera che ancora presumiamo possa dividere la sfera pubblica da quella privata degli uomini. e degli abitanti di Sarajevo, della loro quotidiana esistenziale tragedia, questo libro sa dare conto attraverso tante piccole storie, in prima o in terza persona, vere e verosimili, ma comunque dotate di uno sguardo interno e perciò portatore di un’inedita drammaticità.
La dimensione di una tragedia viene percepita da chi la vive proprio attraverso gli oggetti prima inavvertiti, i fatti comuni di ogni giorno: un piccolo cactus, un vecchio pozzo interrato, un vetusto Maggiolino o una fotografia nascosta nel taschino interno di un portafogli. Per i profughi, per chi deve da un giorno all’altro abbandonare la propria casa senza sapere se potrà mai più farvi ritorno, la cernita delle cose da portare con sé si trasforma nel bilancio di tutta una vita. Così tra scarpe, cappotti e camicie finivano coperchi di zuccheriere, i cucchiaio, accendini rotti, istruzioni per l’uso del frigorifero e mille altre cianfrusaglie preziose solo là per là, in quanto parte di ciò che permette ad un uomo di riconoscere la propria casa, di ciò che nessuno si porta dietro in nessun viaggio ma poi, una volta arrivati a destinazione, quegli oggetti tolti dalle valigie hanno perso ogni valore e significato e assai più preziosi sembrano quelli che si sono dovuti abbandonare.
Con uno stile cangiante, che alterna commozione e distacco, lirismo e anatomica freddezza, Jergovic racconta storie di persone qualunque che si trovano di colpo il fronte davanti alla finestra, a scuola o al mercato. coma una presenza terrifica che si insinua fra vicini di casa, persino fra vecchi amici o fra marito e moglie.
Elena si divide dal marito Zlaja, attempato studente dal fragile universo interiore, sognatore privato dalla guerra di qualunque sogno credibile. Slobodan ragazzo strano da sempre, impazzisce del tutto nella pioggia di granate sotto cui passeggia tranquillo, ripreso dagli esterefatti operatori di qualche televisione; Izet si trova davanti una mattina il proprio vicino di casa, che fino a ieri gli offriva la grappa e ora minaccia di sgozzarlo; Salih, cui i cetnici hanno trucidato con una motosega la moglie e la figlia proprio davanti ai suoi occhi, diventa un raro esemplare di studio per gli psichiatri che però resteranno delusi perché lui, analfabeta e un po’ tonto, continua a vivere la sua vita istintivamente, non chiede e non vuole niente da nessuno; la morte di una nonna è «l’ultimo dolore isolato nel placido universo dell’infanzia» prima di un tempo in cui le morti saranno spicce e senza neanche il tempo per la tristezza.
«Pensavo ad un miracolo - dice un personaggio - guardando la mia casa e la mia macchina illese dopo quel giorno e quella notte allucinanti. Ma col tempo capii che in realtà nulla era salvo, semplicemente non era ancora giunta l’ora del commiato.
Quella sarebbe giunta piano, avrei dovuto sentirla in ogni piega per poi capire che in questa città, oltre alla gente trucidata e scannata, oltre alle case distrutte, e all'infanzia dimenticata, non ci resta più niente, salvo, forse, un sacco di carne viva che si nutre del dolore per le piccole cose perdute, e che dinanzi alle cose grandi della vita, trema, come il motore prima di spegnersi».
Così il narratore assiste impassibile all’incendio delle tante biblioteche pubbliche e private di Sarajevo perché non ha senso proibire al fuoco di ingoiare ciò che l’umana indifferenza ha già ingoiato.
E nella lettera lasciatagli da un amico che è scappato via esprime un’idea che è anche una lucida e inquietante interpretazione di tutto l’orrore accaduto: «Nessuno ha fatto niente per la verità e questa ha smesso di funzionare come argomento». La verità che «suonerà offensiva, se mai qualcuno vorrà dirla, per i serbi, per i croati e per i musulmani. I primi hanno istigato e messo in atto il crimine, gli altri, nella loro disgrazia, hanno creduto di essere nel giusto e di dover pensare e agire come i primi». Perciò sarà solo un riflesso di questa catarsi del male» ciò che accadrà in futuro.
Chiunque non sia indifferente di fronte a tanto scempio deve leggere questo libro che risale alla storia attraverso le storie, il cui racconto ha la pregnanza stessa della vita e la permanenza di cui è capace la letteratura.