Recensioni / Cristianesimo e mestiere delle armi nel primo Democrates di Juan Ginés de Sepúlveda

Lo scorso anno è stata pubblicata la prima edizione italiana, con testo latino a fronte, del De conuenientia militaris disciplinae cum Christiana religione Dialogus, qui inscribitur Democrates, di Juan Ginés de Sepúlveda. Il curatore, Vincenzo Lavenia, si basa sulla prima edizione del testo pubblicata a Roma nel 1535, di cui segnala le variazioni sia rispetto alla sua versione manoscritta anteriore alla stampa, conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (Barberinianus Latinus, 1896), sia rispetto alla seconda edizione pubblicata a Parigi nel 1541, utilizzata per l’edizione del Democrates a cura di Julian Solana Pujalte e Ignacio J. Garda Pinilla (in Juan Ginés de Sepúlveda, Obras Completas, voi. XV, Madrid, Ayuntamiento de Pozoblanco Imprenta Tara villa, 2010, pp. CXV-CLXI, 80-192). Lavenia si avvale inoltre delle edizioni del testo a cura di Angel Losada (1963) e Francisco Castilla Urbano (2012).
Il Democrates mette in scena un dialogo ambientato a Roma nel 1532 durante la «pericolosissima guerra che il capo dd turchi Solimano ha mosso contro ungheresi e tedeschi» (p. 13) ed affronta la tematica, antica quanto il cristianesimo, della conciliabilità dell’arte militare con la legge di Cristo. Il testo è preceduto da un saggio (pp. XI-LVH) in cui Lavenia fornisce una puntuale contestualizzazione dell’opera, descrivendo, oltre al clima storicopolitico, l’ambiente culturale entro cui Sepúlveda elaborò il Democrates: il testo è frutto del periodo italiano dell’autore, che si estende dal 1515, quando Sepúlveda ha accesso al Collegio Spagnolo di Bologna su presentazione del cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, al 1536, anno in cui fa ritorno in Spagna in seguito alla nomina a cronista e cappellano reale di Carlo V.
Genesi e ispirazione dell’opera sono raccontate dallo stesso Sepulveda nella premessa al testo, quando spiega di aver sentito a Bologna (in occasione dell’incontro del 1532 tra Carlo V e Clemente VII) numerosi giovani della nobiltà spagnola turbati dal fatto che «un soldato valoroso non possa soddisfare allo stesso tempo agli obblighi militari e ai precetti della fede cristiana» (p. 9). Nonostante chiaro bersaglio polemico sia Erasmo, nel testo l’errore alle spalle di questo dilemma viene attribuito a Lutero: Sepúlveda, spiega Lavenia, non si sente di poter attaccare direttamente Erasmo per le simpatie di cui l’umanista godeva nei circoli imperiali (cfr. p. 9, n. 8).
Quanto al contenuto dell’opera, il Democrates si divide in tre libri e mette in scena un dialogo tra tre personaggi fittizi: il tedesco Leopoldo, «quasi luterano», portavoce di Erasmo; lo spagnolo e veterano di guerra Alfonso Guevara; il greco Democrate, che «non solo si intende di filosofia, e di lettere greche e latine, ma anche di arte militare» (p. 17). Quest’ultimo si trova a Roma per discutere col Papa proprio di affari di guerra, ed è portavoce di Sepulveda: in apertura del terzo libro, Alfonso afferma infatti che se Ginés fosse stato presente «sarebbe stato d’accordo in tutto e per tutto con Democrate» (p. 159).
Nel primo giorno (Libro I) si discute della «guerra in genere» e, come mostra Lavenia, per quanto concerne il tema della guerra giusta il Democrates si pone in diretta continuità con Cicerone, Agostino, Tommaso e il Decretum di Graziano: «per intraprendere una guerra giusta come operazione di giustizia (ius ad bellum) occorreva un’autorità legittima che la dichiarasse e una giusta causa per iniziarla: la difesa da un’aggressione esterna, la riparazione di un danno o di un torto subito senza colpa, il soccorso degli alleati e dei più deboli» (p. 25, n. 26). Democrate stabilisce inoltre che la guerra, rimedio per la pace ed operazione di giustizia, non è contro la legge di natura, ossia quella legge che promana dalla volontà di Dio, di cui si servono tutte le nazioni e che è base di un costume comune a tutti i popoli umani, in ogni tempo, indicato come ius gentium (cfr. p. 37); in base a ciò, Democrate sostiene che rifiutare la guerra è rifiutare il vivere civile.
Altra questione riguarda proprio «la vita dedita ai negozi» (in cui rientra l’etica della gloria mondana ricercata dal buon soldato) che «non solo merita di essere approvata, ma è necessaria alla conservazione della naturale società umana» (p. 47): se gli apostoli e Cristo scelsero celibato e povertà «per rendere perfetta la vita che avevano loro stessi scelto» (p 185), sapevano anche che «vincoli nuziali e ricchezza sono necessari alla vita umana e civile» (p. 185). Cristo, con i suoi insegnamenti irenici e pauperistici, «non dettava norme la cui trasgressione impedisse di vivere rettamente, ma indicava solo la via per raggiungere la vita più compiuta [...]» (p. 51). Si devono allora distinguere precetti necessari, quelli del decalogo (sufficienti per garantire la salvezza), e consigli per l’eccellenza.
Il secondo giorno (Libri II e III), vengono discusse la natura delle virtù, il sommo bene, l’autorità dei filosofi, la superiorità di Aristotele e l’accordo tra peripatetici e cristiani in materia di etica e virtù; nel fare ciò, Aristotele è utilizzato come auctoritas al punto che Democrate viene rimproverato da Leopoldo di mettere «davanti i principi e i pareri dei filosofi, inserendo qua e là il nome di Aristotele come fosse Paolo» (p. 95). Si discute poi delle caratteristiche del soldato virtuoso, che assolve al suo dovere eliminando il nemico, atto da non considerarsi omicidio, ma piuttosto un «cercare la vittoria riducendo il numero dei nemici» (p. 235).
Nel saggio introduttivo, Lavenia argomenta che «se ci fu un umanista spagnolo a tutto tondo nella prima metà del secolo XVI questi fu certamente l’autore dd due dialoghi dal titolo Democrates» (p. XI); l’umanesimo di Sepúlveda, lungi dall’implicare posizioni ireniche, è tale per l’amore e la profonda conoscenza dei classici pagani (Aristotele – studiato con Pomponazzi, e di cui fu traduttore – e Cicerone in primis), di cui l’autore cerca una conciliazione con il cristianesimo. Così prende le mosse Lavenia, in risposta all’antihumanisme di Sepúlveda delineato da Henri Méchoulan nel celebre saggio del 1974. È infatti possibile distinguere un umanesimo di matrice pagano/ antica (quello di Sepulveda appunto, entro cui rientra anche il «filosofare libero e acristiano» che si respirava tra Padova e Bologna) da un umanesimo «tutto cristiano ed ostile alle «favole» dei greci e dei latini» (p. XII), che ha come mentore Erasmo.
Quella proposta da Sepulveda, continua Lavenia, è una terza via rispetto alle due «letture storiche dd rapporto tra cristianesimo e armi» (p. XV). La prima è quella irenica di Erasmo, che si oppone sia al Dio degli eserdti dell’Antico Testamento, sia alle auctoritates (Agostino, Bernardo di Clairvaux e Tommaso) utilizzate da pontefici ed interpreti per legittimare i conflitti, e che contrappone alla dottrina cristiana della guerra la persuasione come via del confronto con infedeli ed eretici. La seconda lettura, quella di Machiavelli, punta il dito «sul rapporto irrisolto tra le armi e la religione di Cristo» (p. XV), e, considerando la guerra una realtà inevitabile e mondana, accusa il cristianesimo di aver infiacchito gli animi nel suo tendere a un pacifismo antistorico, e di non essere stato alla pari delle fedi civili, capaci al contrario di chiamare i cittadini alle armi. La proposta di Sepulveda è sia una risposta oppositiva ad Erasmo, sia una delle prime repliche a Machiavelli.
La produzione anti-erasmiana di Sepúlveda è vasta: già nel 1523, data della pubblicazione del Gonsalus seu de appetendo gloria, l’autore è in aperta polemica con Erasmo nell’elogiare il concetto stoico di gloria, da non considerarsi inferiore alla virtù della contemplazione: tale gloria rendeva grande l’impero di Ferdinando il Cattolico, emulando la Roma imperiale; nella Cohortatio ut bellum suscipiat in Turcas, composto da Sepulveda per Carlo V nel 1529 dopo aver assistito, rifugiato a Castel Sant’Angelo, al Sacco del 1527, bersaglio polemico è l’irenismo: l’autore sostiene che quella contro l’Islam possa essere considerata una «guerra santa» (come nel Democrates, cfr. p. 73) e vede nel conflitto tra Carlo V e i Turchi (sottoposti a dispotismo, codardi e senza nozione di proprietà) una riproposizione moderna dello scontro descritto da Aristotele tra greci e barbari-persiani. Seguirono accuse di eresia mosse da Sepulveda ad Erasmo e la pubblicazione di un ulteriore testo nel 1532 (Anta- pologia in Erasmum), il che non impedì un breve scambio epistolare tra i due.
Il Democrates, «pur discutendo le premesse aristoteliche e stoiche che avrebbero fornito materia per legittimare la soggezione degli indios in nome dell'humanitas e del concetto di barbarie o di servitù naturale, soltanto per un errore prospettico si potrà leggere come un’anticipazione delle polemiche spagnole di quindici anni più tardi» (p. XXV); il riferimento di Lavenia è al Democrates alter testo composto da Sepulveda nel 1544 e che, a differenza del primo Democrates, incontrò difficoltà nella diffusione essendo stato recepito come estraneo dalla cultura accademica spagnola di metà ’500 (il testo è stato tradotto e pubblicato nella stessa collana da Domenico Taranto, Democrate secondo, ovvero sulle giuste cause di guerra, Macerata, Quodlibet, 2009). Nelle pagine del Democrates si respira infatti aria italiana, che Lavenia ripercorre attraverso le edizioni del tipografo romano Antonio Biado (a cui si deve la stampa del Democrates). Sepúlveda orbitò infatti intorno a Roma e alla corte papale dal 1526 al 1535. Blado pubblicò tra il 1532 e il 1533 il Principe, le Istori e i Discorsi di Machiavelli, oltre a una serie di testi legati alla guerra ai Turchi, in particolare il Commentario delle cose de’ Turchi di Paolo Giovio, che Sepúlveda conosceva di persona.
Sepúlveda si distacca sia da Machiavelli, sia da Giovio: se il cristianesimo è, contro Machiavelli, «la [religione] più adatta al mestiere delle armi conciliandosi, meglio di altre, con la virtù classica dell’onore» (p. XXVIII), esso è anche migliore dell’Islam, diversamente da quanto sostiene Giovio, che ritiene i soldati ottomani più virtuosi e disciplinati di quelli cristiani proprio per la loro religione. Sepùlveda ha probabilmente in mente quest’ultima disputa quando, in apertura del Democrates, racconta di come le truppe di Solimano siano fuggite spaventate di fronte all’esercito di Carlo V, di gran lunga inferiore numericamente (cfr. p. 15).
Per concludere, Sepúlveda, coniugando agostinismo, stoicismo e aristotelismo, può affermare che l’etica della gloria non è anticristiana e può delineare i tratti del soldato virtuoso e magnanimo, che «mira sempre in ogni virtù a imprese grandi» (p. 135) e, differentemente da quanto vuole la «sciocca e volgare opiniore» di molti soldatacci, rifiuta il duello, perdona e non serba rancore (p. 245). La fede dunque non rende imbelli, ma al contrario il soldato virtuoso e magnanimo è al contempo un buon cristiano.