Recensioni / Il viaggio di Vasta esploratore acuto di città fantasma

Ho più volte mostrato scetticismo sulla qualità della narrativa italiana degli ultimi dieci quindici anni. Certo devo correggermi: leggo Giorgio Vasta e mi chiedo se non mi trovo davanti a un piccolo (per ora) grande (futuro) scrittore. Me ne convince risolutamente il suo ultimo Absolutely Nothing (Quodlibet) (il suo viaggio con il fotografo Ramak Fazel attraverso il deserto americano tra Los Angeles e Las Vegas). In realtà è un viaggio attraverso il se stesso (intelletto, immaginazione, corpo) dell’autore, che è per natura in attesa – manca sempre di qualcosa e agogna di trovarla. “Da un viaggio desidero soprattutto questo, percezione e inventario, vita sensoriale che diventa linguaggio, censimento dei materiali, una ininterrotta descrizione di cose senza mai una consapevolezza precisa, senza la minaccia di un significato, senza neppure l'ombra di una metafora: un viaggio di soli fenomeni e stupore”. E allora l’Absolutely nothing (l’assolutamente niente del deserto) è il luogo che risponde meglio al suo desiderio che non è ansia di “conoscere” ma volontà straziante di “sentire”. Le parole vengono prima della conoscenza e dopo la sensibilità che ha il compito di fornire a esse (alle parole) il corpo. Ma occorre trovarle. L’intero viaggio (con le sue numerose soste) è dominato dal dibattito (scontro) tra Vasta, il fotografo e Sonia (organizzatrice e sponsor del viaggio) se “vero” e “falso” sono più gemelli che nemici. Il nulla che è il tutto del deserto qui e lì interrotto da irriconoscibili vestigia-rovine che non sono il vero ma l’ombra del vero (di una vita precedente) giustifica l’insistito dibattito. Che differenza c’è tra vero e falso a Salton Sea (un lago a pochi chilometri da Los Angeles) una volta elegante e frequentato luogo di sport acquatico e ora distesa di fango frutto di pesci morti e di marcio tremolante? L’uomo non è il suo fantasma e se lo è, è la sua versione falsa. E quando i tre viaggiatori avanzando nel loro itinerario incrociano ancora una rovina per l’occasione (turisticamente) in un museo – che per esempio ricostruisce e rievoca la vita al tempo del Far West – lì a presiederlo trovano uno straordinario cicerone (tanto radicato quanto pronto in ogni momento a mollare) che intrattiene i tanti più spesso pochi turisti con un eloquio ricco e artatamente cadenzato da vero (antico) oratore (o nuovo esagitato retore) convinto che la credibilità necessita di un tono (una tonalità) alto e “esagerato”. Quel cicerone sta raccontando il falso o qualcosa che è insieme falso e vero? In quell’“esagerato” c’è il superamento del limite del vero, c’è “questa confusione tra vero e falso su cui si fonda buona parte della cultura americana”. I fatti sono contornati da un alone di leggenda “e quando la leggenda si fa fatto vince la leggenda”. Il risultato è “una verità ambigua e traballante di cui non si può che dubitare”. Questa intuizione (lo sviluppo di questa intuizione) rincuora (e rassicura) il viaggiatore Vasta che fin dall'inizio dell’avventura (del loro viaggio) si sente posseduto (disturbato) da un senso di “mancanza”. Mancanza che avverte prima che come assenza di convincimenti e di certezze come presenza di un vuoto. Vuoto che Vasta mette a prova di verifiche. Certo non di verifiche razionali – anche se il dibattito tra i tre viaggiatori sulla verità dei “fatti” prosegue per tutta la durata del viaggio fino a chiamare in causa Macbeth (lo fa il fotografo scandalizzando Sonia) con quell’“esiste solo ciò che non esiste” – ma di verifiche sensoriali. Vasta quella mancanza (quel vuoto) vuole sentirlo con il corpo, vuole materializzarlo e sfidare il linguaggio a trovare le parole capaci di manifestarlo. “A Daggett, contea di San Bernardino, giriamo a piedi. Non incontriamo niente e nessuno se non una pensilina vuota, lo scheletro di una pompa di benzina… Individuare le parole per dire un posto come Daggett non è semplice, le sfumature sono minime ma fondamentali. Per esempio, se anche mi piacerebbe descriverlo come smantellato, so di non poterlo fare. Perché smantellato presuppone un ordine logico, una procedura che qui è mancata; sfasciato oppure scassato sarebbero più adatti proprio perché più grossolani…; deperito medicalizza il fenomeno; deturpato lo moralizza; demolito rimanda a una intenzione, spaccato lo riconosce nella sua connessione a una materia divisibile; sgangherato semplicemente lo motteggia. Il disabitato, mi dico, è un punto limite. Ciò oltre cui la percezione non può spingersi; perché oltre c’è l’indicibile”.
Vasta fin dall'inizio del viaggio accusava una mancanza (che lo abitava per intero) ma avvertiva che quella mancanza era il prodotto di un furto. Quel furto era compiuto dal linguaggio (che gli negava la possibilità di parlare) ma quel linguaggio era anche la refurtiva che andava recuperata. Questo lo scopo del suo viaggio nei deserti americani che, mancando di tutto (in quanto presenza di una assenza) come l’autore, ne favoriscono il ritrovamento. Il linguaggio non è imitazione (ricalco di quel che già c’è), è invenzione non in quanto adeguamento delle parole alle cose piuttosto come occasione delle cose di porsi come sorgenti di linguaggio. Vasta lo sa ma sa anche che il linguaggio appena ritrovato subito sparisce. Così a conclusione della lettura di Absolutely Nothing io immagino Vasta, gran costruttore di linguaggio, già alla ricerca di un nuovo Absolutely Nothing.

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