Recensioni / Vita coniugale

Poteva riuscirci solo un emiliano a dire tanto incontestabilmente e spassosamente bene che le mogli sono delle rompipalle. E passi che reggono il mondo, perché sono pur sempre donne e come tutte le donne erediteranno la terra (come scrive Aldo Cazzullo), ma è pure vero che, a un certo punto, diventano un’istigazione cronica a turpi delitti, quantomeno verbali. Come si sopportano quelle che s’incazzano come furie quando i mariti le accompagnano a scegliere un vestito e, anziché aiutarle a sceglierlo, si rannicchiano su un divano e, catatonici, annuiscono a qualunque cosa, perché vogliono un compagno partecipativo e reattivo? Concentrandosi sull’orogenesi per ottenere un effetto di estraniazione? E quelle che fingono di ignorare che il maschio occidentale è educato al principio di non contraddizione e quindi, sebbene creda – in fondo – nel Dio cristiano, che è uno e trino, se la moglie fa ritardo quando lui è pronto da mezz’ora e lo rimprovera di averle fatto fare ritardo, non c’è modo di convincerlo che sia colpa sua, perché se uno è pronto non può anche essere in ritardo, A non può essere B, ed è assai improbabile che, se lei insiste, lui quantomeno non mediti di lanciarla tra le sabbie mobili? E quelle che riescono a farsi infastidire dal suocero anche quando è in un letto d’ospedale e incolpano il marito di avere un padre bullo, imbarazzante e borioso, mentre lui ha solo voglia di fregarsene di quanto sia stronzo suo padre, almeno mentre sta morendo? Non che i mariti siano più facili, per carità: sono pur sempre maschi e i maschi sono gelosi persino del fratello della propria fidanzata, pure se quel fratello è nato con una grave malformazione che lo porta ad abbracciare la sorella e, certe volte, a toccarle un po’ il culo. Il matrimonio è una nevrosi che rende nevrastenici, da sempre e ovunque (tranne, forse, in qualche film francese come “Il marito della parrucchiera”, dove comunque la moglie è così felice che, per paura di non esserlo più, si ammazza). Ivan Levrini, il matrimonio, vuole salvarlo. Perché è un conterraneo di Pupi Avati, secondo il quale sposarsi, oggi, è l’atto più politicamente scorretto che ci sia. Perché è molto preoccupato dai numeri dei delitti familiari, in crescita costante e più numerosi di quelli di mafia. Perché, soprattutto, ritiene che moglie + marito + figli sia ancora uno schema di attacco-difesa-contrattacco imprescindibile per giocare alla vita. Quindi, in un libro che racchiude molti matrimoni (compreso uno mai celebrato, eppure assai sentito e, per un certo periodo, anche felicemente vincolante), ha provato a mettere in fila tutte le cose che, dentro un uomo e una donna legati per sempre, a un certo punto, inacerbiscono e, anziché reciderle, le ha trapiantate, mostrandone la loro divertente, toccante, innocua necessità. “Le persone buone sono pericolose perché non sanno il male che fanno”: se il matrimonio alleva la parte cattiva di noi (che basta saper guardare in faccia per annientarla, deridendola), non può che dimezzare i pericoli del vivere. È o no un motivo buono per credere nel fatidico sì?