Recensioni / L'inessenza della vita

Se cerchi una recensione, vai altrove. Qui ci sono io con la mia inessenza: cioè il me stesso privato di ogni artificio retorico, il me stesso denuclearizzato dal vezzo valutativo, il me stesso non più scrittore e non più lettore critico. Qui c’è solo ciò che è scaturito dalla lettura di Absolutely Nothing di Giorgio Vasta (Quodlibet/Humboldt 2016) e dalla sua essenza, che è inessanza anch’essa: ossia si tratta di qualcosa che, almeno in partenza, non era nelle intenzioni del suo stesso autore. Qui siamo oltre lo spoiler. Siamo al tentativo di scrivere del significato di questo libro. E se proprio vuoi continuare a leggere, te lo dico subito, non c’è bisogno di perdere altro tempo, Absolutely Nothing parla del senso dell’esistenza umana e di nient’altro.

Non ti sarà difficile reperire su internet notizie formali su Absolutely Nothing, qui invece non ne troverai se non funzionali al suddetto tentativo.

Il genere ricalca quello consolidato del reportage di viaggio e al contempo ne tradisce immediatamente i canoni. Il tempo di viaggio distorto in modo funzionale al tempo del racconto. Le persone che diventano in modo dichiarato personaggi (Ramak Fazel e Giovanna Silva). Il viaggio materiale che si piega all’esigenza del viaggio interiore. Lo spazio che da luogo penetrato immedesima il ruolo di presenza penetrante. Certo siamo nei deserti americani e vi accediamo attraverso la tipica rete antropizzata fatta di aeroporti, metropoli, autostrade, cittadine, strade, luoghi abbandonati o sulla via dell’abbandono, ma in ogni momento si ha la percezione che questo libro sarebbe potuto nascere anche se l’autore fosse rimasto fermo dentro casa davanti al computer. Il reportage desertico dai luoghi di sparizione è, in definitiva, solo la superficie. La prima chiave di lettura. Una scusa. Un artificio.

E il viaggio è una scusa, è un artificio, per certi versi è la chiave di lettura ideale per osservare e per mettere in discussione la propria esistenza.

Per Vasta il viaggio diventa l’innesco di un cammino introspettivo che con ogni probabilità l’uomo Vasta già stava compiendo. Il viaggio è ricerca, di qualcosa o di qualcuno, il viaggio è creazione, e nella tradizione letteraria spesso ciò si è tradotto nella ricerca di se stessi.

L’impressione, però, che ho avuto leggendo le prime pagine è che Vasta non sia partito alla ricerca di se stesso, ma che sia stato invece il viaggio, o meglio, il vagabondaggio tra città e deserti a imporsi alla sua anima “in cerca” e alla sua scrittura (non a caso unanimemente riconosciuta) “di ricerca”. Il viaggio ha divorato Vasta. Vasta si è reso disponibile a essere divorato dal viaggio.

Il deserto e i luoghi abbandonati e l’artificiosità cinematografica degli Stati Uniti sono i ponti che permettono all’autore il cammino per il suo viaggio. Sono luoghi limite, estremi che già di loro costringono il visitatore alla riflessione sul rapporto tra l’essere umano e lo spazio che vive, che ha vissuto, che ha provato a vivere fintantoché sono permaste le condizioni per farlo. Il deserto, come scoprirà Vasta, è un luogo che ha bisogno di essere riempito di senso. Ce lo ordina. E Vasta, semplicemente, obbedisce.

L’arma per costruire senso è il linguaggio. L’ossessione di Vasta è il linguaggio. L’ossessione del senso è l’arma di Vasta. E questo potrebbe bastare, ma c’è dell’altro. In Absolutely Nothing la lingua, seppure espressa nelle note corde ricercate, precise, essenziali, stimolanti dello scrittore palermitano, finisce a lungo andare col provocare l’effetto inverso. È come se il linguaggio non bastasse mai a riempire il deserto. È come se il deserto fagocitasse tutto il senso e, anzi, ne chiedesse sempre più. È come se Vasta si fosse reso conto che la costruzione del senso tramite il linguaggio alla fine non servisse ad altro che a dire, che a dimostrare, che la costruzione del senso è mero artificio retorico, bastante a se stesso per un tempo ben determinato e in continuo mutamento. È come se, fuori di ogni metafora, Vasta si sia reso conto e ci porti a renderci conto del limitato e al contempo assolutamente necessario bisogno di senso culturale che l’animale essere umano, per suo involontario allontanamento dalla condizione naturale, ha. Il linguaggio si rivela adeguato e inadeguato, necessario e superfluo, limitato e illimitato, potente e impotente, assoluto e relativo.

Vasta è l’essere umano che, utilizzando la cultura, l’arma umana per eccellenza, risponde alla primordiale, fondamentale chiamata della propria esistenza. Della propria condizione. In questo gioco a perdere e a vincere che è la vita, presa com’è tra l’ineludibile morsa del tutto e del niente. E Vasta non è Omero, non è Ulisse, non è Kerouac, non è Thoreau, non Goethe, non Hesse. Vasta è Vasta, e mette in gioco tutto se stesso, tutte le sue paure, tutte le sue speranze, tutte le sue parole.

«Il cerchio non è rotondo», dice un vecchio monaco ortodosso nel film Before the Rain di Milcho Manchevski, manca sempre qualcosa. Per compiere il senso. Per realizzare il tempo. Per trovare la risposta. Una risposta. Manca sempre qualcosa. Niente mai è sufficiente. Il deserto ne è la prova. Vasta ne è testimone. Eppure, moderno profeta messo alla prova dalla tentazione del demonio, del male, della paura, del nulla, Vasta riesce a tornare dai suoi personalissimi “quaranta giorni” con la sua, la nostra verità. Non cede alla tentazione di tramutare i sassi in pane, ma torna a noi, e a se stesso, con le tasche assolutamente vuote e, insieme, piene soltanto di sassi. Sassi veri.

«Giocare agli Stati Uniti. Perché sono il luogo ma anche il gioco. Qui la finzione non ha opposti, non prevede un contrario: è la realtà più autentica, l’unica possibile», aggiunge lui. È tutto possibile altrimenti, è come se dicesse Vasta. E noi, gli esseri umani, siamo soltanto, e ancora per il momento, “carne immatura” per capirlo. Ancora troppo immatura.

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