Recensioni / Demone e mito

L’elenco delle opere di Furio Jesi (Torino, 1941- Genova, 1980) si arricchisce di un prezioso volume pubblicato dalle edizioni Quodlibet di Macerata. Si tratta di quarantaquattro lettere del carteggio che Jesi e Kàroly Kerényi (Tesvár, ora Timisoara, 1897- Zurigo, 1973) intrattennero, a margine di un complesso e suggestivo rapporto
intellettuale, tra il 1964 e il 1968, e che ora viene presentato nella sua versione integrale (la traduzione delle lettere è, in gran parte, opera dello stesso Jesi), in un’edizione a cura di Magda Kerényi (moglie di Kàroly, e curatrice della sua opera in lingua tedesca) e di Andrea Cavalletti, autore anche di una postfazione. Di queste lettere, ventisette sono a firma di Furio Jesi, e diciassette a firma di Kàroly Kerényi, e coprono una scansione temporale che va dal 30 maggio 1964 (prima lettera di Jesi a Kerényi), fino al 16 maggio 1968 (ultima lettera di Jesi a Kerényi), data in cui il rapporto epistolare viene definitivamente interrotto. In appendice al volume, sono riportate una lettera datata 19 luglio 1972, indirizzata a Magda Kerényi, in cui Jesi si premura di conoscere lo stato di
salute dell’anziano maestro, e la relativa riposta, datata 7 ottobre 1972, nonché un "sommario" - a metà tra il promemoria e una bozza d’indice analitico- delle lettere di Kerényi redatto a suo tempo da Jesi.
I lettori abituali delle opere di Furio Jesi potranno trovare, finalmente, nel volume il necessario complemento ai saggi da lui specificamente dedicati allo studioso ungherese, in particolare I ‘pensieri segreti’ del mitologo, un lavoro che –inserito da Jesi, nel 1979, nella raccolta einaudiana Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea – si struttura in gran parte sulla testimonianza dei documenti epistolari tra i due autori.
Stimolato dalle domande del poco più che ventenne Jesi, Kerényi si mostra da subito incuriosito e recettivo, rispondendo con pazienza e rigore all’entusiasmo intellettuale del giovane studioso torinese. Dall’epistolario, si possono trarre, inanzitutto, elementi per
ricostruire la complessa vicenda intellettuale di Jesi, scrittore precocissimo (pubblicò il suo primo saggio scientifico a quindici anni), ma prematuramente scomparso, in circostanze davvero tragiche, all’età di 39 anni. Un secondo livello di interesse consiste, a parer mio, nella possibilità di cogliere – tra le pieghe del rapporto- la trama sottile di un periodo culturalmente fecondo, forse irripetibile, nel panorama culturale e ideologico del nostro
Paese, legato a personalità compplesse, forse anche contraddittorie, ma di certo non prive di spessore e di coraggio intellettuale.
Studioso irregolare e problematico, Jesi non affidò la propria preparazione ad un ciclo di studi convenzionale, preferendo –alla normale routine universitaria- la "frequentazione"
intellettuale con i grandi maestri della ricerca nel campo delle scienze umane. Di questa scelta, si hanno tracce rilevanti nell’epistolario: "ho seguito l’insegnamento di alcuni maestri
(…) senza mai prescrivermi un completo e un regolare corso di studi universitari. (…) Ho l’audacia di credere che il polemico avversario dei dotti ‘alla Wilamowitz’ mi scuserà questo atteggiamento" (Lettera a Kerényi del 16 gennaio 1965, p. 36). È proprio questa
"irregolarità", questa –per rubare l’espressione a Ferruccio Masini- "via eccentrica", che costituirà il pregio e –per certi versi- il limite delle ricerche di Jesi (dai primi studi di egittologia, fino alle pagine spese nell’ambito di una originale –e spesso mal compresa-
ricognizione sul mito). È l’irregolarità, con la scarsa attitudine al compromesso accademico che comporta, a determinare e, infine, a pregiudicare, il corso di questo intenso rapporto epistolare.
La "scoperta editoriale" di Kerényi in Italia fu merito (uno dei meriti) dello straordinario lavoro "oscuro" di Cesare Pavese, allora consulente presso l’Einaudi (casa editrice che viveva, nel primo dopoguerra, un periodo grande vitalità), e curatore, con Ernesto de
Martino, della prestigiosa "Collezione viola", un evento editoriale che ha segnato una svolta radicale nel tentativo di rinnovamento del provincialismo socio-culturale italiano. Kerényi riconobbe esplicitamente il merito di Pavese, studioso eclettico e tormentato: "Cesare Pavese fu precisamente colui che, in Italia, mi scoprì, e forse non soltanto nell’ambito della storia delle religioni, ma in quello della cultura italiana in generale" (Kerényi a Jesi, 5
ottobre 1964, p. 19).
Jesi illustrò, in più tempi, al maestro ungherese la propria intenzione di scandagliare, alla luce della dicotomia kerényiana tra mito genuino e mito tecnicizzato, le forze oscure che abitano e agitano l’immaginario politico della cultura tedesca del ‘900: la Germania segreta (Gehemeis Deutschland), secondo i versi di Stefan George utilizzati –quasi in sincrono con Theodor W. Adorno- come titolo dell’opera edita da Silva nel 1967. "Se analizzo il più
freddamente possibile la mia posizione – scrive Jesi- vi ritrovo una specie di fatalismo (…).
È giusto che Hitler e i suoi complici siano stati puniti: altrimenti la vita non avrebbe potuto sopravvivere. Ma credo di riconoscere nell’opera di Hitler qualcosa che trascende le responsabilità umane; credo insomma che il vero colpevole degli orrori del nazismo non sia l’uomo-Hitler, ma una forza temibile quanto gli Angeli di Rilke che si è servita di quell’uomo, invadendo la sua volontà" (Jesi a Kerényi, 16 maggio 1965, p. 51)."Hitler- gli risponde più
concretamente Kerényi - fu un delinquente e uno psicopatico e lo furono anche i suoi complici. (…) Per costoro anche il mito falso era buono per ingannare consapevolmente il mondo" (Kerényi a Jesi, 25 maggio 1965, pp. 57-58).
È sul nome di Pavese, infine, che il dialogo epistolare si interrompe, in seguito alla lettura – avvenuta con quattro anni di ritardo, per motivi ben documentati nelle note della corrispondenza – da parte di Kerényi del saggio di Jesi "Cesare Pavese, il mito e la scienza
del mito", raccolto nel volume Letteratura e mito (Einaudi, 1968), inviato in omaggio all’illustre profesore. A Jesi che aveva preteso di instaurare, se non un parallelo, almeno una linea di tendenza tra Creuzer, Nietzsche, Frobenius e Rilke, e che –in quest’ottica-
pretendeva di "smascherare" la persistenza di un legame intrattenuto dal grande studioso ungherese con la religio mortis (un tema cardine, quello della "religione della morte", nelle ricerche di Jesi), Kerényi risponde con parole molto dure: "trovo nel Suo saggio il concetto di ‘mascheratura’ palesemente di fabbricazione italo-comunista" (Kerényi a Jesi, 14 maggio 1968, p. 114). Non solo, rifutando l’invito a comporre un articolo attorno al tema letteratura e ideologia, Kerényi aggiungeva: "temo che Lei non ne sia lieto, e ancor meno contento sarebbe se mettessi per iscritto cosa penso di ‘letteratura e ideologia’ (determinando quanto di falsità è implicito nella parola ‘ideologia’). Ma dei Cechi sinceri potrebbero dirne qualcosa" (Id., p. 115).
Era la rottura, all’ombra della contestazione, e della Primavera di Praga.
A questo "rifiuto" per l’ideologia, in cui, come espresse -in altra sede- Jesi, Kerényi si poneva su un terreno molto simile a quello di Erza Pound, è dedicata l’ultima, amara, riflessione del giovane, consegnata ad una lettera del 16 maggio 1968: "…i tempi sono
particolarmente oscuri. Dubito, d’altronde, che essi possano rischiararsi (…) senza che sia raggiunto il culmine della crisi. (…) Una crisi in cui anche maestro e discepolo, e padre e figlio, si ritroveranno concretamente nemici, nell’una e nell’altra schiera. Vogliano gli uomini che un giorno la pace abbia eco ‘in noi e fuori di noi’ " (Jesi a Kerényi, 16 maggio 1968, p. 118).
Questo dissidio, questa crisi, in tempi sempre più oscuri, non impedira a Jesi di pronunciare, ad Ascona ( 8 novembre 1974), il discorso in memoria di Kerényi. Non ultima testimonianza di un legame profondo che neppure il tragico destino di Jesi ha impedito di portare a compimento.
Autori: Furio Jesi (Torino, 1941 – Genova, 1980) si è dedicato, in giovanissima età, a studi di egittologia, spostando, successivamente, il centro delle proprie ricerche nel campo della
germanistica e della scienza del mito. Ha insegnato Lingua e Letteratura tedesca nelle Università di Palermo e Genova, ha svolto opere di traduzione da Rilke, Canetti, Castaneda, Dumézil, ed ha curato una riedizione critica dell’opera di Spengler, Il tramonto
dell’Occidente, riproposta nella traduzione "sconveniente" di Julius Evola. Ha collaborato con la casa editrice Utetdi Torino ed ha curato il settore delle scienze religiose dell’Enciclopedia Europea Garzanti. La sua copiosa bibliografia comprende anche una prova letteraria, L’ultima notte, pubblicata postuma, e incentrata sulla figura del "vampiro". È scomparso nel 1980, colpito da un arresto cardiaco.
Károly Kerényi (Tesvár, poi Timisoara, 1897- Zurigo, 1973), studioso ungherese di origine tedesca, si formò sotto la guida di studiosi del calibro di Diels e Wilamowitz. Ottenne la libera docenza nel 1927, e, dopo aver insegnato in molte università ungheresi, nel 1943 si rifugiò in Svizzera. La sua impostazione metodologica, dopo un inizio legato alla tradizione di stretta matrice filologica, si aprì ad una visione di fenomenologica dell’esperienza mitica.
Università degli Studi di Bari - Laboratorio di Epistemologia Informatica e Dipartimento di Scienze