Recensioni / Il cabaret al cospetto della morte

Il volume racconta la sorte di alcuni dei protagonisti, in gran parte di origine ebraica, della leggendaria stagione del cabaret berlinese degli ultimi anni della Repubblica di Weimar. L’avvento al potere del nazionalsocialismo li portò all’esilio o allo sterminio nei lager, e Antonella Ottai ne ha ricostruito le vicende attraverso una lunga ricerca storiografica condotta tramite fonti e studi, editi per lo più in area tedesca e olandese. Sulla scia di queste memorie, l’autrice insegue le tracce di quanti tra quegli artisti, pur nella brutalità della vita quotidiana dei campi di transito e di sterminio, tennero in vita il loro cabaret così intriso della radice umoristica dell’ebraismo, esibendosi in quei luoghi dell’orrore con una regolarità da “stagione teatrale” metropolitana.
Alla radice di questo viaggio, le cui tappe sono ripercorse in tre capitoli – dedicati rispettivamente all’attività berlinese dei comici riunitisi nella Jüdische Kulturbund, al campo di transito di Westerbork nel cuore della brughiera olandese e al ben noto insediamento di Theresienstadt a nord di Praga – sta una vicenda autobiografica di cui l’autrice dà conto nel prologo e su cui ritorna nell’immagine finale dell’epilogo. Tutto ha origine dalla rievocazione dei racconti paterni sull’effervescenza di quel “laboratorio europeo della modernità” che fu la Berlino in cui, alle soglie degli anni trenta, si svolsero i suoi studi universitari: ai suoi occhi, i luoghi in cui si espresse la quintessenza della sperimentazione politica, culturale, sociale e dei costumi sessuali di quella città furono proprio quei cabaret di cui fu un assiduo frequentatore.
Ai lettori italiani il libro apre così le porte di un capitolo meno noto e studiato della Shoah, rivelando quello che è forse il più surreale dei suoi volti: la sopravvivenza nei lager nazisti della risata e della comicità. L’assurdità del cortocircuito prodottosi sembra potersi riassumere tutta in un “dialogo” tra le voci di Jetty Cantor, celebre attrice olandese di cabaret, fra le poche sopravvissute della Gruppe Bühne di Westerbork, e del comandante nazista Gemmeker, anch`egli sopravvissuto alla guerra, al processo e alla detenzione. Se la prima, riferendosi ai convogli che si dirigevano verso i campi di sterminio, dichiara crudamente: “I trasporti naturalmente c’erano, ma si doveva anche ridere”, il secondo pare paradossalmente ragionare negli stessi termini quando afferma: “Il talento a disposizione c’era. Perché in una società piena di tensioni non organizzare qualcosa di rilassante?”. Ed è proprio questo incredibile meccanismo, instauratosi tra vittime e carnefici, a produrre la ferita da cui sgorga il problema essenziale posto dall’indagine storica di Ottai: la liceità della risata, quando si trovi ad affacciarsi sull`abisso del dolore e del lutto da cui dovrebbe essere interdetta.
Uno dei molti pregi di questo bel volume è proprio l’essersi posto un interrogativo così inquietante e di aver restituito attraverso una narrazione storica, che alterna registri diversi e una coralità di interventi – memorie famigliari, frammenti provenienti dal repertorio cabarettistico, fonti documentarie, lettere, testimonianze e cronache dei sopravvissuti e non –, non tanto una risposta univoca, quanto il senso più profondo di quello che è stato un estremo gesto di resistenza e un tentativo, sia pur non riuscito, di salvezza. Ridere rende liberi ci racconta come, nel contesto dei lager, il riso prodotto dal cabaret "si sia inscritto non solo nell’ordine degli obblighi, ma anche in quello dei bisogni”. La risata è stata per questi comici il loro ultimo atto: un azzardo di libertà.