Recensioni / Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento

Il recente lavoro di Marco Gatto – studioso che da qualche tempo frequenta con passione e competenza gli ambiti vieppiù disusati o comunque non proprio à la page della critica marxista nostrana e internazionale – ci conduce senza timore di fronte a un problema capitale della riflessione teorica nell’Italia del Novecento, ovverosia ci dimostra in poco meno di duecento pagine tutta la complessità del rapporto tra la critica letteraria marxista e la riflessione estetica del padre più rappresentativo e celebrato del marxismo italiano, Antonio Gramsci. Efficace – poiché di filiazione abortita, in qualche modo, si parla – è la prima parte del titolo Nonostante Gramsci cui segue l’esplicativo Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento; e convincente, bisogna dire, è il quadro che se ne deriva, pur nella inevitabile riduzione del confronto col pensiero gramsciano ad alcune – senz’altro straordinariamente significative – voci del secondo Novecento, con particolare riferimento a Franco Fortini, Asor Rosa, Leone De Castris e Romano Luperini. Gatto ricostruisce infatti la «critica letteraria di Antonio Gramsci» praticando, nei fatti, una sorta di depurazione della riflessione estetica gramsciana da alcune scorie interpretative accumulatesi negli anni e divenute, spesso, quasi degli slogan. Anzitutto il critico spiega che gran parte della speculazione teorica e del dibattito sopra le categorie gramsciane è avvenuta prima dell’edizione critica dei Quaderni dal carcere di Valentino Garretana (1975), che in verità è strumento essenziale ad un corretto uso del testo dell’intellettuale sardo. Eppure, fatto curioso, proprio dopo la seconda metà degli anni Settanta, si assiste ad una caduta di interesse per gli studi letterari gramsciani, dovuta, secondo l’autore, alla perdita di «quella centralità formativa e culturale propria dei saperi umanistici e di quella scissione tra riflessione culturale e proposta politica che avevano caratterizzato il Secondo dopoguerra» (p. 8). In questo senso, allora, il primo capitolo del volume mira a ristabilire il preciso rapporto tra Gramsci e l’idealismo italiano, ovverosia intendere correttamente il pensiero dialettico gramsciano che rifiuta certo l’autonomia del fatto estetico, ma, si badi, non a favore di una riduzione del giudizio estetico a questioni di natura economicista, ovvero a semplificati schematismi sociologici. L’operazione di Gramsci, scrive Gatto anche sulla scorta delle indicazioni di Rocco Pater nostro, consiste invece nello stabilir e che il trattamento dei fatti culturali ha «la medesima connotazione dello studio della totalità sociale» (p. 15) e che quindi superare il «pregiudizio idealistico che vuole l’arte come separata dal mondo, o addirittura come sede del non ponderato, del non intenzionale» (p. 16) non significa rinunciare al giudizio estetico né a delle competenze tecniche specifiche. Piuttosto si tratta di approdare ad una «pedagogia trasparente» (p. 19) che sappia educare le «masse al riconoscimento morale ed estetico della bellezza» (p. 19) coniugando totalità e specificità a discapito di ogni pretesa autonomistica dei fatti sovrastrutturali.
Questo «storicismo integrale» (p. 21), che si rifà in chiave anticrociana alla lezione di De Sanctis, si applica allora, compiutamente, nella forma di un «umanesimo militante» (p. 21) che, costantemente rivolto verso le masse, da un lato ne vuole elevare la capacità di giudizio estetico sino al livello dei grandi capolavori artistici, dall’altro si deve interessare di ciò che osta a tale elevazione, ossia di quella paraletteratura che diventa perciò indicatore fondamentale di «tendenze sociali» e di «dinamiche culturali» (p. 26) più generali. Ciò spiega l’attenzione gramsciana per la produzione nazional popolare, da porre in dialettica, almeno per quanto riguarda l’ambito italiano, al la cultura alta e alla letteratura per letterati: la spaccatura tra il gusto delle masse popolari e la grande cultura borghese riflette, in fondo, l’attività e la rappresentazione di sé di una classe intellettuale che si pensa e concepisce come una casta, ma, pure, evidenzia che alla passione sincera del lettore incolto rispetto ai prodotti paraletterari fa da pendant la freddezza insincera del rapporto tra il lettore borghese e la letteratura colta. Così «alla lotta per un accesso democratico alla letteratura d’arte si assomma la necessità di una letteratura popolare che, conscia del suo valore, sia veramente mezzo di spontaneità disciplinata» (p. 41).
Dopo aver ristabilito queste coordinate generali, ma, si deve dire, non banalmente ricapitolative, ed anzi necessarie, proprio, ad una attuale lettura del pensiero critico di Gramsci rispetto alla teoria letteraria, Gatto passa in rassegna la «critica letteraria del ‘dopo-Gramsci’», impegnata in particolare sul «nesso tra lavoro intellettuale e lavoro politico» (p. 67). Nel secondo capitolo, il critico verifica l’eredità gramsciana nel Dopoguerra, mostrando come il messaggio dell’intellettuale sardo fu recepito effettivamente soltanto tra i due estremi di una banalizzazione, da un lato, e di un sostanziale tradimento dall’altro. Nonostante la diffusa volontà nella sinistra italiana degli anni Cinquanta di fondere tra loro la ricerca letteraria e il progetto di una radicale emancipazione politica, le indicazioni gramsciane non furono nei fatti ricomposte nella sintesi coerente di un rapporto dialettico tra giudizio di valore e lotta politico-culturale. Inoltre il peso del pensiero crociano funzionò sovente come sostrato più o meno inconscio su molti critici anche di estrazione marxista (Binni, ad esempio), ed ebbe come evidente risultato una «difesa implicita» (p. 83) dell’autonomia del testo letterario o la «conservazione della sua supposta purezza» (p. 83), pure in casi di esemplare comprensione della proposta storicista gramsciana come è quello di Sapegno. Il ritorno a De Sanctis proposto da più parti come possibilità operativa volta a superare l’idealismo crociano a favore di una metodologia storicista (Muscetta, Petronio, Alicata) non fu accompagnato da una sufficiente rimeditazione teorica o dialettica dei propri presupposti, risolvendosi in poco più che una «sollecitazione» (p. 81) progressista, incapace tuttavia di superare lo storicismo ottocentesco.Caso emblematico ne sarebbe il celebre dibattito tra Salinari e Muscetta rispetto al romanzo Metello di Vasco Pratolini. Del resto, come ben osserva Gatto, già nel bilancio di Dieci inverni (1957) Franco Fortini poteva imputare proprio ad un «deficit teorico e strategico [...] l’oblio della lezione gramsciana» (p. 103). Sarebbe insomma indice di un gramscismo ben interiorizzato la proposta fortiniana di andare oltre una ripresa puramente formale di Gramsci stesso, poiché l’incapacità di autocritica e di autorappresentazione degli intellettuali di sinistra specifica già di per sé l’impossibilità di «fuoriuscire dallo sterile richiamo ad una forma piuttosto generica di impegno» (p. 107).
Il terzo capitolo del volume prende in considerazione gli anni Sessanta e Settanta, che si muovono secondo Gatto «verso la dissoluzione del paradigma gramsciano» (p. 109). In tale direzione, il lavoro si risolve soprattutto in un serrato confronto tra la posizione operaista di Asor Rosa e quella del Fortini di Verifica dei poteri (1965): se il primo, da una specola «nichilista e apocalittica» (p. 144), chiama l’intellettuale rivoluzionario «a un suicido corporativo e a un’uccisione della tradizione» (p. 144), in cui, in una logica di lotta di classe, non c’è spazio per il momento culturale, il secondo si pone su «un piano di difesa dell’autonomia dell’intellettuale e del suo lavoro» (p. 144), facendo leva su una produzione letteraria che sappia «interpretare i sentimenti dei diseredati» (p. 144). Ma si tratta, avverte Gatto, di «due estinzioni», benché di segno opposto, del paradigma gramsciano. Paradigma che invece resiste nel lavoro di Leone De Castris, i cui contributi appaiono a Gatto come «lucidi momenti di autocoscienza di un’intera generazione di critici letterari» (p. 145).
Ne l’Anima e la classe (1972), infatti, Leone De Castris, proprio a parti re dai limiti rintracciati nelle teorizzazioni fortiniane e soprattutto nelle posizioni di Asor Rosa, elabora un «ragionamento (gramsciano) sulla nuova funzione che la cultura potrà assumere» (p. 156) in un’epoca caratterizzata dal «deteriorarsi di una prospettiva totalizzante e dialettica» (p. 157). Nel ritirarsi dell’intellettuale dalla battaglia culturale, il critico intravede la possibilità di una lotta ideologico-letteraria che, pur svolgendosi in un terreno «istituzionalmente separato e subalterno» (p. 157), si dà già come immediatamente politica.
Il volume si chiude con un quarto capitolo, assai meno articolato dei precedenti, in cui Gatto dimostra come alla crisi del marxismo, evidente dalla seconda metà degli anni Settanta in avanti, corrisponda un’idea di coesistenza di diversi metodi interpretativi, forieri, in ogni caso, di una precisa ideologia anti totalizzante e anti-dialettica. Se il fine, per l’intellettuale marxista in questa fase, è quello di utilizzare marxisticamente i diversi metodi di ricerca disponibili, il risultato, anche nei casi straordinari di critici come Luperini, è spesso la sostanziale trasformazione del discorso dialettico e di ogni progetto emancipatorio «in un generico discorso teoretico di opposizione» (p. 173), con una riduzione dell’idea gramsciana di egemonia «ad una battaglia tra posizioni critiche» (p. 171).