Recensioni / L’estate romana, cioè la vittoria dell’effimero

Dalla metà degli anni Settanta le principali città italiane vengono amministrate per la prima volta dalle cosiddette giunte rosse. Roma, Milano, Venezia, Napoli, Torino e Firenze godono così dell’avanzata nazionale del partito comunista di Enrico Berlinguer che per la prima volta sfonda all’interno della società italiana aggregando a sé anche ambiti tipici della borghesia.
Queste città divengono il laboratorio ideale per mettere alla prova una possibile e in quegli anni imminente sinistra di governo con il partito comunista come forza trainante. L’esperienza di quelle amministrazioni, e in particolare di quella romana, restano così a oggi un punto di riferimento per innovazione, tutela del patrimonio e bonifica delle periferie.
A Roma, dopo i lunghi anni della gestione democristiana, toccò al critico d’arte Giulio Carlo Agan imprimere alla propria amministrazione un passo innovativo, dettato dalla necessità di bonificare un corpo urbano allora dilaniato da un consumo confuso e speculativo del territorio e da uno sfilacciamento sociale tra centro e periferie che faceva allora di Roma una capitale arretrata e implosa.
Argan, di fronte a una così ingente sfida, seppe cogliere l’importanza del segno e del gesto in anni in cui la tensione avvelenava la quotidianità e la politica iniziava a sbandare pericolosamente.
Il sindaco individuò nella figura del geniale architetto Renato Nicolini, che nominò a soli 35 anni assessore alla cultura della capitale, il generatore ideale di quella elaborazione che dal 1977, con la prima edizione dell’Estate romana, fino al 1985, diede al concetto di effimero spazio e luogo.
L’Estate romana che è al centro del volume di Federica Fava non va però intesa come il precursore di quella stagione degli eventi e dei festival che arrivata fino a oggi invade (e in taluni casi infesta) le città italiane con programmi in alcuni casi ben fatti, ma molte volte privi di capacità di confronto con il territorio su cui vengono fatti calare.
La peculiarità dell’Estate romana non è mai stata la costruzione dell’evento pur avendone definito in molti casi il paradigma, ma l`interpretazione della città stessa. Era la città che era effimera con la sua liquidità, con il suo movimento e anche con le sue contraddizioni; e l’Estate si preoccupò di darne visibilità costruendo nel frattempo le premesse di una condivisione di comunità che sarebbero poi sfociate (almeno in parte) nelle riforme delle giunte Argan e Petroselli.
Per Nicolini l’effimero era dunque il segno più evidente di una vitalità che, attraverso gli happening dell’Estate, prendeva corpo rendendosi visibile. In tal senso è puntualissimo il lavoro di esegesi compiuto da Federica Fava che attraverso un’analisi di quegli anni evidenzia come la visione dell`architettura romana proposta da Nicolini fosse allora (come anche nel caso del Teatro del Mondo di Aldo Rossi a Venezia) al centro di un discorso capace di parlare agli specialisti come alla cittadinanza. Un discorso che arriva fino ai lavori di Oma e della Biennale Architettura di Rem Koolhaas, ma che purtroppo sembra essersi volatilizzato dalle strade e dalle Giunte delle città italiane.